Uno sguardo alieno. La fotografia di Giovanni Hänninen
Silvia Anna Barrilà
Qual è stato il percorso che ti ha portato alla fotografia?
Di formazione sono un ingegnere aerospaziale. Ho studiato al Politecnico di Milano, ho lavorato in Agenzia Spaziale Europea come ricercatore e ho fatto il dottorato con Amalia Ercoli-Finzi sull'ottimizzazione multidisciplinare di sistemi complessi, in particolare, legati all'ingresso nell'atmosfera marziana. Mi sono occupato di temi, in qualche modo, molto distanti da noi. A un certo punto, ho sentito l’esigenza di tornare a qualcosa di un po' più pratico e che desse un riscontro immediato e, quindi, nel mio tempo libero, sono tornato a occuparmi di fotografia, che era stata la mia grande passione da ragazzo, per tutto il periodo del liceo.
Quindi hai iniziato molto presto con la fotografia?
Sì, ho avuto la fortuna di avere una madre che si dilettava di tante cose e avevamo anche una piccola camera oscura che costruivamo a necessità in bagno e, quindi, mi ha insegnato non solo a fotografare ma anche a stampare. L'idea di seguire il processo da capo a fine è una cosa che mi ha sempre appassionato. Infatti, anche ora nel mio studio c'è tutto: siamo in grado di gestire dalla fase di progetto, che è quella più importante e occupa il 90% del lavoro. Poi si va sul campo, che è solitamente una fase abbastanza concentrata, per poi arrivare alla fase di post-produzione, alla stampa, alla preparazione delle mostre e all'ideazione degli allestimenti.
Quali sono stati i tuoi primi progetti?
All’inizio sperimentavo molto. Ci sono delle fotografie, di cui si ricorda sempre Giovanna Calvenzi, la moglie di Gabriele Basilico, che è stata la mia mentore nell'ambito della fotografia, che sono state scattate esattamente sopra questo divano nel mio studio. Io ci saltavo sopra (infatti, un paio di doghe sono state cambiate!) davanti alla macchina fotografica, con una serie di flash, bloccandomi in posizioni strane.
Come è arrivato il tuo interesse per l'architettura?
Sin da subito. In particolare, nei primi anni 2000, mi sono interessato, come anche altri fotografi all'epoca, delle architetture delle fabbriche abbandonate, che occupano buona parte del territorio lombardo e del nord Italia ed erano accessibili in maniera più o meno legale. Sono rimasto molto affascinato da quegli spazi, quasi come se fossero degli spazi teatrali e questo è l'inizio di una una ricerca che è proseguita nel tempo.
In che direzione è proseguito il tuo lavoro?
Su vari temi, uno di questi era quello della migrazione, per cui nel 2007 sono andato sull'isola di Lampedusa a vedere i cosiddetti centri di accoglienza, dove passano i migranti che scappano via mare dal Nord Africa per cercare di raggiungere l'Europa. In quegli anni, mi sono occupato di reportage sociale e anche a quella che veniva chiamata la questione degli “immigrati di seconda generazione”, vale a dire, i figli di famiglie che sono arrivate in Italia e le implicazioni nella scena politica italiana. Nonostante siano passati quasi 20 anni, è un tema tristemente attuale, presente anche nella mostra presso lo Studio Lombard DCA, accanto ad altri temi come quello della teatralità e quello del cambiamento climatico, in particolare, legato alla tempesta Vaia, che nel 2018 ha sradicato oltre 42 milioni di alberi, accelerando la presa di coscienza della gravitò degli eventi climatici estremi.
Come hai raccontato questa catastrofe naturale?
Sono stato chiamato da Giovanna Calvenzi per documentare per Arte Sella, insieme ad altri nove fotografi, quello che aveva lasciato il passaggio della tempesta. Il mio lavoro è stato poi selezionato per la XVII Biennale di Architettura di Venezia nel 2021, come parte del Padiglione Italia.
Uno dei lavori per cui sei più noto è quello sul Teatro alla Scala.
Sono stato chiamato da Paolo Besana, che oggi è il Direttore della comunicazione del Teatro alla Scala e ai tempi lavorava per la Filarmonica della Scala, e vedendo alcuni dei miei lavori, mi ha chiesto di andare a fotografare un concerto. Il risultato non è stato esaltante.
Come è andata avanti la collaborazione?
Per qualche motivo lui mi ha richiamato e ho cominciato a lavorare molto per il teatro, diventando in alcuni anni l'unico fotografo della Filarmonica della Scala. Mi sono chiesto perché mi avesse richiamato: secondo me, lui ha visto qualcosa che io ai tempi non avevo ancora capito: la commissione di tre direzioni diverse, cioè la fotografia di scena, la componente architettonica e il reportage.
Intanto continuavi a lavorare come ingegnere?
Sì, in fotografia stavo provando tantissime direzioni e, allo stesso tempo, continuavo a lavorare come ingegnere. Però, riuscivo anche a produrre reportage che venivano pubblicati in quotidiani e riviste come Repubblica, Vanity Fair, Rolling Stone. E poi, appunto, è arrivata questo lavoro delle fotografie di scena.
Sono molti generi diversi…
Sì, sembra passato poco tempo, ma all'inizio degli anni 2000 era molto forte la divisione tra i generi in fotografia, per cui c'era il genere dell'architettura, quello della fotografia di scena, della fotografia di reportage e non c'era commistione tra di loro. Poi, verso la metà degli anni Dieci, è esploso tutto, quindi, oggi c'è una compenetrazione tra i generi e, anzi, la visione del singolo genere è considerata anche abbastanza noiosa e superata. Ai tempi, penso in maniera assolutamente inconsapevole, ho portato l'architettura e il reportage all’interno del teatro, creando una mia interpretazione della fotografia di scena. Allo stesso tempo, ho assorbito la componente della teatralità e l’ho portata all’esterno, nel mondo, nell'architettura, facendo mia l’idea di racconto, di messa in scena, di mischiare e fondere in maniera quasi a volte incomprensibile la realtà con la finzione.
Si riflette nel lavoro fatto con la Fondazione Josef and Anni Albers…
Esatto, che pure è esposto nella mostra allo Studio Lombard DCA. È nato quando sono stato nella loro residenza d’artista in Senegal, che si chiama “Thread”. Ho cercato di raccontare l’area dove la Fondazione l’ha costruita, in una zona rurale a otto ore di automonile da Dakar, senza corrente elettrica, senza acqua e senza sistema di fognatura. La Fondazione, attraverso la sua Ong che si chiama Le Korsa, ha creato le condizioni affinché le persone possano imparare a migliorare le proprie condizioni di vita. Un’immagine molto evocativa mostra il ruolo dell'intelletto umano per costruire qualcosa: si vedono dei mattoni, che per me rappresentano in nuce che cos'è l'architettura, fatta di sole, terra, acqua e dell'ingegno e del lavoro umano, e un padre con i figli che costruiscono. Essendo una delle zone con la temperatura media più alta al mondo, molte delle cose della vita quotidiana si fanno di notte, al buio. In alcune opere, ho cercato di raccontare ciò in maniera molto teatrale, creando, grazie a lunghissime esposizioni e a delle piccole torce attaccate sulle teste delle persone, dei flussi di luce che tracciano gesti e spostamenti.
Un modo per inserire il movimento nella fotografia…
È un gioco per cercare di usare la fotografia non semplicemente come un mezzo di trascrizione uno a uno della realtà – anche perché chiaramente non lo è, perché c'è l'inquadratura, c'è la scelta, c'è il momento – e in questo caso, appunto, c'è l'aggiunta della dimensione temporale. La realtà è tridimensionale, mentre la fotografia è una sezione bidimensionale della realtà, ma la verità è ancora più complessa, perché la realtà è quadridimensionale, se pensiamo anche alla dimensione del tempo.
Qual è l’esito di questa ricerca?
Attraverso quell'esperienza in Senegal è nata una serie che oramai dura da quasi sette anni, che si chiama “Flux, Human Trajectories in Architecture”. Nella mostra presso lo Studio Lombard DCA c’è una di queste immagini, quella del Teatro alla Scala, in cui ho cercato di compattare un intervallo temporale all'interno della bidimensionalità della fotografia. Quindi, non è semplicemente un istante temporale secco, bensì una somma di diversi momenti che vengono compattati per raccontare un intervallo che, in questo caso, è di cinque anni, documentando la trasformazione del Teatro alla Scala prima, durante e dopo il Covid.
Come hai fatto a realizzarla?
Attraverso la sovrapposizione di tantissime immagini che raccontano diversi momenti importanti. Tra questi, per esempio, i lavori di miglioramento dell'acustica; un altro momento è la sostituzione del pavimento che aveva coperto la platea del teatro durante il Covid per permettere all'orchestra di suonare con il giusto distanziamento. Un altro ancora è l’esecuzione della Sinfonia dei Mille. Era dagli anni ’70 che non veniva proposta a La Scala. E poi il balletto del Macbeth, che non veniva più eseguito dagli anni ’30.
Oltre a La Scala hai fotografato tantissimi altri teatri in Italia e all’estero.
In questa mostra viene esposta parte di un progetto che si chiama “Favoloso Teatro” sui teatri italiani, che è stato portato avanti con la curatrice Renata Ferri.
Un capitolo importante è dedicato ai teatri del Polesine, una regione d'Italia storicamente povera, ma ricca di teatri, perché la popolazione locale nel tempo si è autotassata per avere i teatri. Intorno al 2018-19, la Cassa di Risparmio di Rovigo ha attuato una grande campagna di riqualificazione e rimessa in opera di buona parte dei teatri del Polesine, da cui poi è nata una mostra, realizzata con Alberto Amoretti, che si è tenuta a Rovigo tra il 2020-21. Da qui è partita la ricerca anche su altri teatri.
In mostra c’è anche un arazzo. Come si contestualizza quest’opera nella tua ricerca fotografica?
Come dicevo, la fotografia per me è uno strumento per raccontare, una forma di narrazione. Dopo il lavoro su Vaia, sono stato contattato da Massimo Belotti di Torri Lana, che è un'azienda tessile del 1800 di Gandino (sono loro che hanno prodotto le giubbe rosse dei Garibaldini), che io conosco molto bene perché mia madre è stata una loro disegnatrice per quasi trent'anni. Massimo Belotti ha contattato una serie di artisti e designer italiani e stranieri per realizzare una visione contemporanea dell’arazzo. Insieme al mio assistente Gianluca Munari abbiamo pensato di utilizzare le maschere che servono a rendere più profonda e tridimensionale un’immagine, che avevamo già realizzato per il progetto di Vaia, mettendole insieme per creare un paesaggio reale ad hoc.
A quali altri progetti stai lavorando attualmente?
Sto portando avanti un progetto che sarà presentato in varie occasioni, tra cui in Triennale l'11 novembre a un congresso organizzato con Fondazione Mondadori, e riguarda la definizione spaziale degli archivi. In questi ultimi cinque o sei anni ho fotografato almeno 50 archivi in giro per il mondo, interessandomi non tanto a quello che è il contenuto dell'archivio, quanto a come è fatto l'archivio. Lo spazio dell'archivio, per quanto i contenuti siano molto diversi, spesso ha molte somiglianze e molte risonanze. Ho fotografato quello della Fondazione Albers, di Bijoy Jain di Studio Mumbai in India, del Tribunale di Milano in Italia, che raccoglie tutta la storia d'Italia, di Vincenzo Sparagna e Frigidaire, di Mantova Letteratura. Oggi si sta rivalutando l'importanza dell'archivio, soprattutto quello fisico, che è fondamentale, soprattutto, in una nazione come la nostra. Negli ultimi due anni e mezzo, ho lavorato anche per il Consorzio delle Acque Potabili di Milano metropolitana, andando a fotografare le architetture storiche e, di fatto, creando un heritage, un rapporto col passato, adesso che il consorzio sta per compiere 100 anni.
Quando hai lasciato l'ingegneria per occuparti esclusivamente di fotografia?
Dopo il dottorato ho continuato a insegnare analisi matematica e geometria al Politecnico di Milano. Poco alla volta poi ho cominciato ad avere sempre meno corsi. Ci sono stati in cui ho avuto 10-12 corsi da 300 studenti a corso. Poco alla volta ho cominciato a diminuire, finché nel 2015 ho smesso.
Ma continui a insegnare al Politecnico?
Ora insegno fotografia per l'architettura. Ho cominciato insegnando etnografia urbana con Massimo Bricoccoli, che ha voluto portarmi all'interno del Dipartimento di Studi Urbani, di cui adesso lui è il direttore, e ho un laboratorio di progettazione che lavora oramai da quattro o cinque anni sul tema dell'invecchiamento della popolazione.
Ci sono dei riferimenti per te dal punto della fotografia o nell'arte contemporanea a cui guardi?
Dei riferimenti forti sono chiaramente quelli della scuola di Düsseldorf. La tipologia nella fotografia tedesca del Novecento rappresenta per me un tema fondante. Ho apprezzato molto la mostra “Typologien”, che si è tenuta a Fondazione Prada su questo tema. È una struttura di ricerca su cui si basa qualunque mio progetto fotografico. Un riferimento forte è August Sander, che ha creato questo discorso. Per esempio, la sua serie di ritratti di persone senza nome, di cui ognuno rappresentava una categoria. Durante la residenza d'artista presso la Fondazione Albers in Senegal, ho fatto mio il suo lavoro, andando a fotografare le tipologie di persone della grande regione rurale di Tambacounda, con oltre 200 ritratti che raccontano la società e che sono stati poi stampati in grande formato e appesi per le strade di Dakar, di Marrakesh, Milano, Parigi, Berlino, Firenze, Palermo.
Altri riferimenti più contemporanei?
Ci sono degli artisti apparentemente lontani da me, ma che ammiro molto. Uno di questi è Wolfgang Tillmans, che ha un approccio strutturato, perché comunque viene dalla stesso ambito della scuola di Düsseldorf, ma caratterizzato da naturalezza, freschezza e un'immediatezza che mi piacerebbe tornare ad avere. Ma anche la fotografia intima di Nan Goldin mi piace moltissimo, sebbene non faccia propriamente parte della mia dialettica.
Se dovessi descrivere il tuo linguaggio in pochi minuti, come lo faresti?
A me piace giocare con la fotografia, nonostante molte delle mie immagini sembrino fredde e rigide. Nel momento in cui le faccio mi diverto sempre. Io ci leggo anche tanta ironia, anche se poi magari non è sempre esplicitata. Sicuramente c'è un grande rigore o, almeno, un tentativo di cercare di comprendere in maniera quasi scientifica la realtà che voglio andare a raccontare.
Tornando a fare l’ingegnere aerospaziale, un po’ scherzando, penso che le mie fotografie siano delle cartoline di un alieno che atterra da qualche parte e cerca di far vedere con un'immagine unica un sistema complesso. All'interno di quell'immagine ci sono tanti livelli di lettura. Anche il fatto di utilizzare molto spesso un punto di vista rialzato mi aiuta non solo a cercare un po' di distaccarmi della realtà, ma anche di far vedere quella realtà in maniera più approfondita, perché non c’è più quel punto di vista piatto dal quale non si vede bene la terra, ma in qualche modo si ha un punto di vista rialzato, dal quale si vedono dinamiche che si creano davanti a noi, che altrimenti sarebbero invisibili.
Silvia Anna Barrilà è giornalista freelance specializzata in arte contemporanea, mercato dell’arte e design.
