Sostenibilità: il potere o il danno della ripetizione
La ripetizione nel mondo antico era vista come una pratica che poteva solo giovare al benessere individuale e poi collettivo. Per esempio, Orazio, nelle Epistulae, suggerisce che la ripetizione è necessaria per far comprendere e interiorizzare la morale: “ciò che è stato detto una volta, se ripetuto, giova”.
In altre parole, nella tradizione antica, imparare equivaleva a dover ripetere, in quanto principale veicolo del sapere. Non solo: ripetere un testo o una regola significava sì memorizzarlo, ma anche assimilarlo interiormente.
Nei riguardi del termine sostenibilità, oggi si sta assistendo a un fenomeno simile, seppur allo stesso tempo contraddittorio. È un termine, infatti, che secondo alcuni esperti è stato esasperato, usato all’infinito anche in occasioni e in riferimento a oggetti o azioni improprie, e che ha oggi avuto delle conseguenze.
I dati ci dicono che, dal 2018 al 2025, circa il 30-35% degli italiani afferma di avere familiarità con questo tema; di questi, un quarto si dichiara sostenitore della sostenibilità, quindi non solo conoscitore del concetto ma anche attuatore nella vita quotidiana. Dato, quest’ultimo, che cresce progressivamente di un 2% ogni anno.
In questo senso, possiamo affermare che il consumatore contemporaneo è ricco di valori, e forse dovremmo smettere di investire in slogan sulla sostenibilità, perché rischiano di essere scambiati per greenwashing. A volte, infatti, conviene investire nel processo, in modo silenzioso, nella convinzione del beneficio comune che può generare.
Dall’altra parte, è cresciuto un sentimento di scetticismo nella popolazione davanti a questo termine, forse per il suo continuo risuonare senza la presenza effettiva di risultati concreti, tanto quanto l’uso stesso della parola. Un pubblico di incerti che dobbiamo riconquistare, e forse dobbiamo partire proprio da quella parola che ha causato questo passo indietro nel credere veramente nel suo potere: sostenibilità.
Sì, perché diciamoci la verità: le parole hanno un peso, un potere importante, e se ben comprese e accettate anche i gesti ne possono beneficiare.
Come non ripetere tante volte il termine? Non è banale. Ma pensiamo solo che, anni fa, nel mondo delle imprese, quando la sostenibilità non era ancora un termine appreso e messo in pratica, ciò non voleva dire che nessuno la perseguisse. Erano azioni sì intraprese, ma votate alla buona impresa, all’innovazione messa al servizio di un progresso veramente tale. E con questo intendiamo un progresso a beneficio dell’intera società, più che del profitto economico.
Quasi quasi dovremmo prendere spunto dalle Imprese Culturali e Creative (ICC), per cui il profitto economico non è visto come un risultato, ma come una condizione necessaria affinché i gesti e le espressioni culturali creino solidità e supporto nella società.
Come ha ben detto Carla Morogallo nell’ultimo numero di AES dedicato alle ICC: “Si lavora in ambito culturale per un senso di appartenenza al bene comune, che fa leva sulla sensibilità personale e sulla formazione”. La differenza, dunque, sta in ciò che ispira e muove le nostre azioni, che devono essere a monte e non a valle delle nostre scelte.
Tutto ciò portava a un risultato di qualità, di valore, i cui impatti sociali, ambientali ed economici erano il più delle volte equilibrati e non in conflitto tra loro. Stiamo parlando di una minoranza, è vero, ma non da scordare: ricordiamo ancora quello che è stato il loro impegno, ancor prima che la sostenibilità diventasse di moda.
Questo approccio è oggi parte dell’idea di sostenibilità del marchio di moda Cancellato Uniform, il cui obiettivo non è la mera produzione, ma la creazione di abiti di qualità che siano per tutti, di tutte le taglie e per ogni età. Perché la loro missione è quella di farci stare bene con noi stessi e con gli altri.
Facciamo caso, poi, a quante volte la comunicazione di Cancellato impiega il termine sostenibilità per definire questo approccio al proprio lavoro: poche, e quasi mai.
Altri termini che ben rappresentano il processo più ampio — e che sto cercando di ripetere sempre meno — sono responsabilità.
Sì, quel sentimento che ci porta a percepire le nostre azioni come fondamentali per il bene comune, per portare un cambiamento nel presente e per le generazioni future, attraverso azioni quotidiane, lavorative, umane.
Un altro esempio è come la società benefit (RI)GENERIAMO comunica le sue azioni. Appunto non con il termine sostenibilità, ma con il termine che ha ispirato il loro stesso nome. Come loro stessi affermano, (RI)GENERIAMO nasce per generare nuove economie, rigenerando persone, prodotti e perimetri in un’ottica inclusiva e imprenditoriale. Sono principi e obiettivi in linea con quelli di sviluppo sostenibile, eppure nel loro sito non c’è traccia del termine sostenibilità.
Qualità, valore, strategia, impatti positivi, responsabilità, essere generativi e bene comune: sono queste le parole che vogliamo promuovere, quali componenti del significato più ampio e centrale nel nostro tempo.
Perché, se il termine sostenibilità è uno, non dimentichiamoci che i suoi significati sono molteplici — e quindi tante sono le azioni che potremmo intraprendere per portare un beneficio sociale, ambientale ed economico.
In conclusione, forse possiamo intravedere i movimenti di una trasformazione silenziosa: quella che il filosofo Søren Kierkegaard, nell'opera La ripetizione, concepiva come l'idea che la reiterazione di un evento o di un concetto, tante volte e in continuazione, possa condurre a una trasformazione profonda dello stesso oggetto ripetuto, quasi a far perdere il significato originale per acquisirne uno nuovo.
In questo senso, la ripetizione non è vista come mera riproposizione, ma come un processo dinamico che può portare a una comprensione diversa e a una metamorfosi del significato stesso.
Questo è anche un invito a ripetere dentro di noi, appunto tante volte, la parola sostenibilità, e poi chiederci cosa ne è rimasto, cosa la rende unica per noi e per ciò che facciamo: è rimasto, alla fine, solo SOS, o è diventata ABILITÀ di navigare nella complessità di oggi?
Beatrice Carrara

Beatrice Carrara
Aree: Sostenibilità, Cultura
Beatrice Carrara è storica dell’arte e studentessa magistrale in "Comunicazione del patrimonio" nel corso "Valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale" presso l’Università degli Studi di Bergamo. Si occupa della redazione di bilanci sociali e di sostenibilità e di attività di ricerca sul mercato dell’arte.
