Sentire il margine
di Aurora De Toffoli
Definirsi per opposizione è una pratica fisiologica, se si è parte di quella poco definibile categoria chiamata “i giovani’’. Capire cosa si è - e cosa si vuole essere - opponendosi a ciò che non si è - e non si vuole essere - è necessario per strutturare la propria personalità. Ripetersi “Non sarò mai come mia madre’’ o “Non assomiglierò mai a loro’’ mentre ci si specchia nei propri cambiamenti puberali, aiuta a ritrovarsi, delineando i propri confini.
Si tratta di una dinamica che può riguardare moltissimi aspetti della definizione della propria identità. Può avvenire nei confronti delle figure educative di riferimento, rispetto alla propria identità politica, sociale o alle proprie aspirazioni di vita. E la stessa cosa vale per i luoghi fisici, dove l’elemento del margine rientra nel modo più evidente: chi vive il centro si identifica nel modello che nega il periferico. Allo stesso modo, un giovane che vive in una zona definita marginale si discosta, come atto di forte autodeterminazione, da tutto ciò che rimanda al nucleo, al privilegio della città dei quindici minuti. I margini sono fatti di abitudini e di linguaggi, ancor prima che di sezioni territoriali. La prima tra queste abitudini consiste nel pensarsi passaggio per giungere altrove, sia logisticamente che per gli obiettivi di vita.
In effetti, si parla di periferie riferendosi solo alla concezione geografica: la distanza dal centro. Quello che manca è un approccio multidimensionale capace di restituire la complessità e la specificità di aree difficili da mettere a fuoco, che rientrano a fatica in categorie sociali e urbanistiche predefinite. Dove vengono scritte le storie e le esperienze di chi vive al margine, e da chi?
Tra gli 0-19enni che vivono in Italia, ben 3 milioni e 785 mila, quasi 2 su 5, si concentrano infatti nelle 14 città metropolitane, costituite dal Comune principale e dal suo hinterland, dove vive anche il 13,7% dei contribuenti con reddito inferiore ai 15 mila euro annui. (Dato ISTAT)
Scomodo sceglie di occuparsi esplicitamente di marginalità dal 2021 - con la sua prima pubblicazione monotematica dal titolo “Nuove Periferie’’, trasformando eventi, storie e dati in apparenza slegati tra loro in una pagina da scrivere. La scelta di dedicare un intero numero alle periferie ovviamente non nasce dal nulla. Da quando è stato fondato, nel 2016, Scomodo ha avuto modo di rapportarsi alla marginalità. Non solo attraverso i nostri articoli ma anche attraverso le attività fisiche che facevamo – e in parte facciamo tutt’ora – in varie città.
L’approccio scelto dalla nostra realtà per raccontare il margine è quello di farsi da parte, rimanendo su una soglia di cui molti parlano ma che pochi vivono. Con questa attitudine, non è difficile rendersi conto di quanto sia facile sentire il margine nelle nostre vite. L’esperienza di uno stato liminale è tipica, infatti, della condizione giovanile. Si vive subendo una costante fase di confinamento: messi da parte dalla politica e dal welfare, ci rifugiamo in meccanismi di sopravvivenza per riuscire a passare oltre, diventando finalmente adulti.
I giovani non sono un pubblico accattivante per nessun portatore di interesse. Sono pochi, pieni di risorse e desiderosi di cambiare quello che non va. É difficile avere a che fare con le nuove generazioni se si utilizzano chiavi di lettura arrugginite: molto meglio costringerli a farsi da parte, diventando soggetti periferici. Definire la periferia, dunque, è un atto che porta con sé interessi e gerarchizzazioni sociali, non solamente una delineazione fisica.
Anche da un punto di vista demoscopico i giovani sono una minoranza, aspetto che rende poco attrattivo da parte delle istituzioni il target under 25. Al contrario, la centralità amministrativa ha più volte ribadito un interesse nell’occuparsi del senso di isolamento che il margine (non solo spaziale) è in grado di suscitare nella popolazione giovanile. Finora le politiche per le periferie urbane disagiate hanno percorso prevalentemente la direzione dall’alto verso il basso. Sono state elaborate in uffici di diverso rango istituzionale, dai ministeri agli enti locali, spinte soprattutto dalla necessità di spendere risorse diventate disponibili. Non tutte hanno fallito gli obiettivi di ridare qualità a edifici malsani, di portare servizi dove non c’erano mai stati, di attrezzare spazi pubblici, come una piazza o un’area verde. Ma hanno prevalso gli interventi sulla struttura fisica dei quartieri e poco sul tessuto sociale, sulle disuguaglianze, su quello che gli studiosi chiamano il diritto alla città.
La periferia è tutto ciò che viene marginalizzato. Oltre le definizioni macroscopiche, essere giovani e vivere in periferia significa subire categorizzazioni che arrivano prima di tutto il resto, stracciando intere esistenze sul tempo e relegando intere fasce di popolazioni a mere dinamiche oppositive, sia in contesti formali che informali. Le amministrazioni locali presentano continuamente progetti di riqualificazione delle periferie, molti dei quali elaborati da tempo. Ma complessivamente si dialoga raramente con chi quei progetti li vedrà realizzati davanti a casa.
L’etimologia della parola periferia risale alla lingua greca e sta per “portare intorno”, che possiamo anche intendere come “collocare lungo i bordi”. Che siano caratterizzati da situazioni di disagio e acute disuguaglianze o schiere di villette e palazzine borghesi, sembra secondario. E invece non lo è.
Fino a quando nella composizione sociale delle periferie italiane hanno prevalso i ceti popolari, da queste parti di città arrivavano molti consensi ai partiti di sinistra. Poi lo scenario è cambiato, si è imposto il modello della cosiddetta città diffusa e il voto è diventato molto più volatile o si è scelto di non andare a votare. Urbanisti, sociologi e antropologi concordano, con sfumature anche sensibili, sul significato plurimo della parola periferia e preferiscono declinarla al plurale. Oppure sottolineano come un quartiere non è periferico in eterno: può essere sopravanzato da un altro quartiere o vedere modificata la propria composizione sociale a vantaggio di ceti più ricchi. In ambienti politici, soprattutto a destra, e in parte dell’informazione prevale invece un’accezione statica della parola periferia. Pronunciandola si alza il tono della voce. Si mettono in evidenza insicurezza e pericolosità: le periferie urbane sono raccontate come problema, spesso di ordine pubblico, dove italiani e immigrati si contendono una casa popolare, un locale in abbandono o uno spazio per i giochi dei bambini. Allo stesso tempo le si addita come luogo dal quale può partire la rivolta contro gli establishment arroccati nelle aree privilegiate della città, baluardi della sinistra.
Di periferie si è parlato molto, durante il 2022, quale scenario in cui agiscono giovani rapper milanesi, molti dei quali immigrati di seconda generazione, nati in famiglie di origine nordafricana. Nei loro brani cantano il disagio del vivere in quartieri degradati, guardati con sospetto e talvolta al centro di vicende giudiziarie, anch’esse messe in musica. È un fenomeno artistico assai complesso, articolato in forme di dissenso radicale, controverso ma con forti riscontri discografici e straordinario seguito sui social. Eppure, nonostante uno studio molto documentato come Barrio San Siro (Franco Angeli 2022) dell’antropologo Paolo Grassi, la vicenda dei rapper milanesi è stata inquadrata prevalentemente come cronaca nera: faide tra bande rivali, accoltellamenti, spedizioni punitive. Come se in un quartiere che vive una condizione periferica, afflitto da marginalità e senso di esclusione e dove le disuguaglianze emergono prepotentemente, anche l’espressione artistica del disagio avesse il destino segnato in senso delinquenziale.
L’ultima pubblicazione monotematica di Scomodo sul tema è stata una Fanzine dedicata proprio al quartiere dello stadio Meazza. Declinandolo in tre capitoli - politica, musica e femminismo di periferia - il ritratto che gli è stato restituito è quello di un luogo facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici ma difficile da lasciare a causa della poca mobilità sociale. La sacca di povertà che impugna San Siro - e altri quartieri dell’hinterland - costituisce un ponte levatoio sempre alzato che non permette sogni meno economici. Eppure, queste aree sono anche quelle più giovani rendendo questi luoghi delle metamorfosi in potenza per tutta la realtà urbana. Cosa accadrebbe se si investisse su ciò che la periferia già possiede e offre e si smettesse di pretendere che diventi poco più di un satellite del centro, andando oltre la definizione di luogo figlio del modello urbanistico del Novecento essenzialmente basato sull’azione congiunta di tre R: risorse pubbliche, rendita e regolazione?
La periferia, tuttavia, non è più un atomo inscindibile o una categoria aggregata, e nelle città contemporanee coesistono molteplici periferie in funzione delle diverse identità reattive e delle differenti capacità proattive. Le situazioni periferiche sono un ampio mosaico di quartieri residenziali tendenti al degrado, di periferie di prima cintura con processi di riqualificazione e ricentralizzazione, di periferie peri-centrali in trasformazione fino a periferie centrali (ex borgate o centri storici) sottratte alla qualità del contesto. E questo mosaico policromo e multimaterico richiede altrettanti approcci interpretativi, localizzativi e gestionali, i quali hanno influenza nel determinare una nuova forma urbana che assuma come strutturale il tema delle periferie.
Nell’assunzione del tema periferia, però, manca qualcosa. È assente uno sguardo capace di non voler - ad ogni costo - definire. Asciugando la terminologia, restituendo pochi altri epiteti che non assomiglino allo spazio degli ultimi. In questo senso, il potere dell’informazione nella costruzione degli immaginari è determinante. Se continueremo a parlare di queste aree solo come il luogo dove il caos il caos patinato del centro si dissolve in un labirinto di strade stanche e casermoni fatiscenti, si dipana un panorama fatto di contrasti e disuguaglianze, non riusciremo mai fare del margine un'esperienza di possibilità.
Ma dove sono i minori delle periferie? Dove trascorrono il loro tempo? Purtroppo, a ben guardare, nelle aree urbane caratterizzate da una maggiore privazione socioeconomica, spesso si osserva anche la carenza di spazi adeguati alla crescita dei minori. La percentuale di edifici scolastici senza certificato di agibilità raggiunge il 70% nelle città metropolitane (62,8% la media in Italia). Gli spazi di verde pubblico fruibile dove trascorrere tempo all’aria aperta risultano in media inferiori nelle grandi città, con 16 metri quadrati a disposizione di ogni bambino, contro i 19,5 della media nazionale. Inoltre, per il 30,7% delle famiglie la carenza di mezzi pubblici è un limite concreto nella possibilità di raggiungere altri quartieri. Tutti questi dati sono stati riportati nel rapporto di Save the Children “Fare spazio alla crescita”, diffuso nell’ottobre 2023. La mancanza di spazi pubblici dedicati alle nuove generazioni è una problematica cara a Scomodo, che da anni si pone come obiettivo quello di aprire luoghi accessibili, a bassa soglia, in cui i giovani e le giovani possano capire chi sono oltre a comprendere se sono o non sono “ragazzi di periferia’”.
Infine, la marginalità è un tema di riflessione e di autocritica che continua ad essere presente al nostro interno. In una realtà che aspira, tra le altre cose, a raccontare fenomeni di marginalità che coinvolgono la nostra generazione, sarebbe ipocrita non riconoscere che almeno una parte di noi viene da situazioni di privilegio evidenti. Ritorna così la domanda: Dove vengono scritte le storie e le esperienze di chi vive al margine, e da chi?
È una contraddizione che rimane aperta, su cui ci interroghiamo e che serve da indirizzo in quello che facciamo.
Aurora De Toffoli Ricercatrice qualitativa e quantitativa in Scienze Demo-Etno-Atropologiche specializzata in studi di genere oltre che nella raccolta e nella contestualizzazione di dati provenienti da un'attenta analisi del micro e macro contesto di riferimento attraverso osservazioni partecipanti, focus group, ricerca d'archivio e somministrazione di questionari. Far parlare i dati raccolti è uno degli aspetti che più la appassiona per restituire un'immagine immediata e comprensibile della complessità sociale. La sua necessità di divulgazione trova sbocco sul mensile Scomodo di cui è caporedattrice.