Federica Vittori

Premesse

Le imprese culturali e creative sono uno spettro ampio di organizzazioni che in modi diversi intrecciano i processi produttivi con l’arte, la cultura, l’artigianato, il design e ogni altro contenuto creativo e artistico. Ci si trova di fronte ad una eterogeneità di settori e mercati, di forme giuridiche e quadri normativi che determinano perimetri e potenzialità di azione molto diversi.

D’ora in avanti faremo riferimento alle organizzazioni culturali e creative che operano nel Terzo Settore, tenendo quindi fuori l’industria, l’artigianato, la libera professione e più in generale il settore profit.

Pur avendo ridotto di molto il campo di indagine, le organizzazioni che operano nel Terzo Settore in ambito culturale e creativo presentano una sorprendente diversità sia in relazione alle attività che svolgono -curatela e produzione di festival, arte pubblica, promozione della lettura, gestione dei servizi culturali, gestione del patrimonio, etc- che guardando alla forma giuridica -associazioni, fondazioni, cooperative, circoli, collettivi, imprese sociali, associazioni di volontariato e tante altre-. Coesistono così, all’interno di uno stesso settore, linguaggi, procedure, abitudini e culture organizzative molto diverse tra loro che intrecciano elementi mutuati dal profit, dalla pubblica amministrazione, dal volontariato, dalle autogestioni, dalle forme di autoproduzione e così via.

A fronte di questa eterogeneità credo che oggi esistano degli elementi specifici che caratterizzano e accomunano le organizzazioni citate e che permettono di articolare un discorso sulle conoscenze e competenze imprenditoriali e manageriali utili per lavorare in questo settore.

Cosa hanno in comune le organizzazioni culturali e creative del Terzo Settore

Naturalmente gli aspetti condivisi sono molteplici, ma in questa sede ne metteremo in luce solo alcuni.

Le organizzazioni culturali e creative nel Terzo Settore sono caratterizzate al loro interno da un’interazione costante tra elementi costitutivi, molto diversi tra loro.

Il primo elemento è rappresentato dalla natura dei linguaggi artistici, creativi e culturali che hanno specificità forti: richiedono libertà espressiva, non piena prevedibilità dei risultati attesi, il seguire traiettorie non programmate ex-ante, la ricerca dell’inedito come elemento cardine della produzione, il desiderio e la ricerca di senso come motore dell’azione. Il secondo elemento è che questi aspetti devono essere introdotti e regolati all’interno della gestione organizzativa, che richiede efficienza, replicabilità, ottimizzazione di tempi e risorse, prevedibilità dei risultati e dell’allocazione delle risorse. Questi due primi aspetti sono comuni a tutte le organizzazioni che operano nel campo della cultura e della creatività. L’appartenenza al Terzo Settore aggiunge, tuttavia, degli elementi assolutamente specifici quali: la non profittabilità delle organizzazioni, la vocazione universale delle produzioni, l’accessibilità della fruizione -tanto fisica quanto economica e psicologica-, la messa in opera di principi di democrazia culturale,  piegando di fatto le due logiche appena descritte ad elementi quali, a titolo di esempio, la gratuità di fruizione, la partecipazione volontaria, la produzioni di impatti socio-culturali.

Il secondo aspetto che si vuole mettere in luce è che, in conseguenza di quanto appena detto, tradizionalmente le persone impiegate nelle organizzazioni culturali e creative nel Terzo Settore hanno conoscenze e competenze specifiche. Troviamo artiste, storici dell’arte, filosofe, curatori, sociologhe, storici, bibliotecarie, antropologi, educatrici e così via. Le professioni culturali e creative sono alimentate anche dal desiderio di impegno culturale, civico, politico che trova casa nell’ambito del Terzo Settore. Raramente si trovano figure interamente dedicate al management, alla ricerca e sviluppo, alla gestione delle risorse umane e dei processi. Quasi sempre invece sono presidiate la gestione economica e la comunicazione, talvolta in maniera strutturata, altre grazie a persone impegnate prevalentemente in altre funzioni e con competenze costruite sul campo. Questo avviene per una molteplicità di fattori tra i quali citiamo la cultura organizzativa, le piccole dimensioni della maggior parte delle organizzazioni e la concorrenza del settore profit per quanto riguarda le funzioni trasversali.

Il terzo elemento comune che caratterizza queste organizzazioni è quello di muoversi in un sostanziale unico mercato dei finanziamenti possibili. Di fatto, c’è concorrenza tra le organizzazioni sull’approvvigionamento delle fonti di finanziamento, in particolare quando si guarda ai bandi pubblici o privati. La costruzione di partenariati e reti sposta la competizione dalle singole organizzazioni a quella tra gruppi di organizzazioni ma non modifica l’assetto competitivo a fronte di risorse scarse.

Infine, un quarto comune denominatore è essere regolamentate dal Codice Unico del Terzo Settore introdotto nel 2017 e perfezionato a più riprese negli anni successivi. Si tratta di un corpus normativo apposito per il no-profit che ha permesso di superare tre elementi critici: la precedente frammentazione delle fonti normative; la conseguente necessità di colmare con normative altre i vuoti legislativi derivanti da un’imperfetta giustapposizione delle fonti e l’ambigua collocazione del Terzo Settore come quel qualcosa tra lo Stato e il Mercato, privo di un proprio ed originale “campo di gioco”.

Guardando alle competenze, questi due ultimi aspetti citati hanno contribuito a modificare la composizione delle professioni all’interno delle organizzazioni dando maggiore peso alla capacità di interpretare e gestire gli aspetti economici, la compliance e l’accountability.

In sintesi, possiamo dire che il Terzo Settore culturale e creativo è uno spazio - economico e regolamentato - posto all’intersezione tra logica delle organizzazioni, la vocazione del no-profit e le competenze delle produzioni culturali e creative. Ciascuna organizzazione trova nel dialogo tra questi elementi la propria specificità attraverso il lavoro di persone con peculiari percorsi di vita e di carriera.

Una interpretazione pessimistica del settore

Lo spazio economico in cui si muovono le organizzazioni culturali e creative del Terzo Settore è endemicamente caratterizzato da scarsità di risorse derivante da un quadro di finanze pubbliche che ha sistematicamente disinvestito in arte, cultura, welfare, scuola, politiche industriali. A corredo si trovano stipendi e tassi di produttività bassi, scarsa capacità di attrarre persone giovani a causa dei salari modesti e delle precarie prospettive di vita e carriera.

La competitività tra organizzazioni per il reperimento delle risorse porta generalmente ad un rafforzamento progressivo di quelle organizzazioni in cui sono presenti competenze alte e specializzate, in grado di aggiornarsi, capaci di sviluppare alleanze efficaci, sviluppare economie di scala e assumere dimensioni progressivamente maggiori. E questa sembra una tendenza in atto anche nel Terzo Settore culturale e creativo.

Guardando ai modelli di business, sempre più il comparto sembra premiare organizzazioni-quasi-imprese, da un lato, e organizzazioni di volontariato, dall’altro. Le organizzazioni-quasi-imprese sono in grado di stare in un mercato competitivo con logiche di impresa, mentre le organizzazioni di volontariato sono capaci di aggregare la spinta della libera partecipazione secondo le logiche di gratuità.

Chi si trova nel mezzo -ovvero quelle organizzazioni piccole e medie con modelli di business legati al reperimento di fondi per progetto -sembra fare fatica a restare al passo, anche a fronte di un funding mix credibile. Questo modello di business comporta un grande investimento di tempo per il reperimento delle risorse, un'ingente produzione di elementi amministrativi e rendicontativi, minori marginalità, maggior tasso di imprevedibilità delle entrate e quindi minore capacità di programmazione.

Queste organizzazioni, che sono però la maggioranza di quelle culturali e creative nel Terzo Settore, oltre a rischiare di rimanere schiacciate dal loro stesso modello operativo, non dispongono generalmente delle competenze specializzate a sostenere le pressioni di contesto. A livello di comparto una evoluzione è avvenuta: si sono progressivamente diffuse conoscenze e strumenti mutuati dal profit per la gestione economica e finanziaria, la pianificazione, l’accountability; elementi importati dal management pubblico per la gestione degli aspetti rendicontativi e la valutazione dell’efficacia delle risorse allocate e dei cambiamenti prodotti.

Questo ha prodotto una positiva armonizzazione di settore per quanto riguarda aspetti gestionali, procedure e prassi a supporto della strategia e delle operatività. Per altro si tratta di strumenti che nel tempo sono riusciti ad assumere una fisionomia propria, sistemando le inevitabili forzature e sbavature che derivano da traduzioni tra mondi molto diversi tra loro.

Tuttavia, nel Terzo Settore culturale e creativo questi nuovi standard procedurali - necessari e salutari - non sono stati accompagnati da un progressivo aumento della presenza di persone specializzate.

In sintesi, il modello premiante che emerge dalle condizioni di contesto sembra spostarsi sempre più lontano dall’associazionismo così come lo abbiamo conosciuto, a favore di organizzazioni grandi, con competenze specializzate tanto sotto il profilo culturale quanto sotto quello manageriale, in grado di sostenere un alto tasso di aggiornamento e una ingente produzione di adempimenti amministrativi. Il peso delle funzioni trasversali (amministrazione-finanza e controllo, comunicazione, gestione delle risorse umane, ricerca e sviluppo, it, gestione legale) è aumentato e questo di fatto richiede alle organizzazioni di assumere dimensioni minime maggiori di un tempo. costituendo di fatto una barriera all’entrata per le nuove organizzazioni.

Per molte organizzazioni culturali e creative del Terzo Settore l’insieme di questi elementi potrebbe produrre una compromissione dei presupposti che ne abilitavano l’esistenza mettendo a rischio il lavoro di molte e molti.

Come possono quindi sopravvivere le piccole e medie organizzazioni culturali e creative del Terzo Settore, tipicamente abitate da persone con background culturale e creativo e già progressivamente managerializzate, che non vogliono stravolgere il proprio modello operativo?

La domanda è naturalmente retorica. La pressione verso una trasformazione radicale dei modelli di business e dei funding mix è enorme e richiede una riflessione significativa a ciascuna organizzazione. Nel mentre, forse, qualcosa si può fare. Di seguito qualche appunto per un piccolo prontuario per momenti difficili.

Vigilare sulle condizioni di operabilità

Sebbene il Terzo Settore mostri una predisposizione all’auto-immolazione per cui una cosa si può fare a qualsiasi condizione - di volta in volta in nome della realizzazione, della missione, del cambiare il mondo, del più bel lavoro del mondo- può essere utile metterla da parte e osservarsi con ragionevole distacco. Così che ciascuna organizzazione possa chiedersi fino a che punto è disposta ad operare e rischiare in un contesto essenzialmente avverso alla sua stessa sopravvivenza.

In assenza di advocacy di comparto strutturata, spetta a ciascuna organizzazione riuscire a leggere costantemente il contesto e le sue rapide trasformazioni per sapere esattamente fino a che punto può sostenere il rischio di investire, resistere, trasformarsi o essere espulsa.

È quindi importante che all’interno delle organizzazioni venga portata avanti un costante monitoraggio. Per rimanere aggiornati sul quadro esterno serve un’analisi di contesto supportata dai dati, occasioni di confronto con altre organizzazioni del comparto, la valutazione delle implicazioni del quadro normativo sulla propria organizzazione. Internamente vanno definiti, e poi monitorati strettamente, gli indicatori di salute della propria organizzazione: indicatori economici, di soddisfazione delle persone impiegate, di buon esito degli adempimenti di legge e di quelli previsti dal sistema di finanziamento (accountability).

Monitorare il rispetto della mission

Gli apparati gestori introdotti da un lato hanno contribuito ad un innalzamento delle competenze, ma dall' altro non sono neutri come potrebbero sembrare. La procedura si è sostituita alla dialettica, gli adempimenti al ragionamento, la necessità di dare conto ex-ante all’assunzione di rischio politico culturale e sociale. I progetti hanno faticato sempre di più ad essere dispositivi per intervenire nei tessuti socioculturali con effetti redistributivi reali, trasformandosi in unità di produzione per l’auto-sostentamento.

Quello che emerge da questo panorama è un comparto più preparato, con competenze maggiormente diffuse tra piccole e grandi organizzazioni, più burocratizzato e più innocuo.

Un’organizzazione culturale e creativa che opera nel Terzo Settore deve riuscire a non soccombere a nessuna delle tre logiche in campo (culturale, civica, economica), ma provare a tenere in equilibrio tutti gli elementi. E’ bene ricordarsi ogni giorno che gli apparati gestori sono al servizio della mission e non il contrario, servono a facilitare il lavoro e far emergere il valore culturale e sociale prodotto. Altrimenti si diventa dei serissimi passacarte convinti di fare il bene della società con conseguente demotivazione delle persone coinvolte e generale perdita di senso. Spetta a chi ha la responsabilità di governo monitorare su questo aspetto. Vediamo come.

Gestire la complessità

Se il valore aggiunto di un’organizzazione culturale e creativa del Terzo Settore si trova nello spazio ibrido derivante da forze contrastanti, sarà l’articolazione di governance a dover riflettere e mantenere vivo questo spazio.

La governance quindi non solo come riflesso del rischio di impresa ma come luogo in cui si giustappongono visioni tanto strategiche quanto conflittuali, “by design”. Non per impantanarsi in sedute lunghissime, ma per dare voce alle componenti del valore, vigilare sull’andamento del settore e sulla propria efficacia politica e culturale come esplicitato nei due paragrafi precedenti. Questo vuol dire costruire una governance in grado di assumere rischi ben ponderati, in primis il rischio di provare ad avere un qualche tipo di potere reale di cambiare le cose attraverso il dispiegarsi dell’insieme delle attività e dei progetti in corso, senza soccombere alla logica del “progettino-carino”. Internamente, vuol dire costruire un’articolazione del potere plurale, reale, condivisa, conflittuale, creativa e soprattutto capace di rinnovarsi nel tempo.

Strategie come mappe

Una gestione del potere equilibrata ha maggiori possibilità di articolare strategie efficaci, tanto all’esterno quanto all’interno delle organizzazioni. Strategie attente che tengano conto del settore, -inclusi i macro-trend e gli scenari internazionali- e delle proprie caratteristiche. Strategie puntuali che non diventino rigide, ma risultino adattive, vive, non lineari, definite in un continuum tra organizzazione e ambiente. In concreto, è utile stilare un piano strategico ed un piano operativo che fissino obiettivi concreti e quantificabili. È poi fondamentale utilizzarli come mappa di navigazione, sapendo che la rotta può cambiare in base ai dati che vengono via via raccolti. Confrontando i dati previsionali -non esclusivamente economici- con quello che effettivamente accade in itinere, la strategia prende corpo nell’operatività, diventando modellabile e in grado di sostenere una crescita che procede per prove ed errori. Pensando ad un’organizzazione come un sistema, si crea così un meccanismo di feedback e retrofeedback, in grado di tornare sui propri passi se necessario, lontana da forme egoiche, narcisistiche e rigide della gestione del potere.

Strutture organizzative come recettori sensoriali

Per sostenere delle strategie con queste caratteristiche serve un’impostazione organizzativa che non separi “la testa” dal “corpo”, ma che sia capace di articolare elementi importanti lungo la catena del valore fino alle unità più “periferiche”. Ogni persona che lavora nell’organizzazione deve essere consapevole di essere portatrice attiva di elementi strategici che possono cambiare anche grazie alle informazioni di cui dispone.

Si tratta, quindi, di costruire un’organizzazione che favorisca l’ascolto, che lavori costantemente per una decolonizzazione dello sguardo, tenendo viva l’ossessione per l’ ”altro”, così come ci si aspetta da chi fa cultura nel Terzo Settore. Questo permette di aggiornare in itinere mappe, filtri, logiche, e i dispositivi di pianificazione e protezione dai rischi di cui ci si dota. In pratica vuol dire cercare di eliminare ogni elemento inquinante all’interno dell’organizzazione (per lo più rubricabili come “egoproblems”) favorendo momenti di confronto puntuali ed efficaci che favoriscono la circolazione di quelle informazioni che possono modificare in meglio l’operatività e la strategia. Insomma, una maniera economica di fare implementazione di processo.

In conclusione

Per costruire mondi possibili, e possibilmente migliori - perché poi è questa la mission di settore- occorre un ecosistema che seppur ostile non sia del tutto inadatto alla vita delle organizzazioni. Occorrono persone preparate e motivate nel mettere a disposizione il proprio sapere per costruire percorsi che portino a uscire da sé e incontrare l’altro, l’inedito.

Serve un piano, una strategia che non diventi procedura ma resti dialettica. Serve saper usare bene i soldi, e più in generale tutte le risorse per un’ecologia profonda in grado di trasformare l’esistente. Serve raccogliere dati di settore, di contesto, di soddisfazione, di buona riuscita dei progetti e poi utilizzarli. E non è detto che basti.


Federica Vittori si occupa di empowerment di organizzazioni, progetti, persone e comunità. Lavora con cheFare dal 2015 di cui è fondatrice e Vicepresidente. Segue programmi e accompagnamenti strategici per lo sviluppo di fondazioni, cooperative, associazioni, pubbliche amministrazioni oltre che il design e lo sviluppo di progetti culturali e sociali multi-stakeholder per lo sviluppo dei territori e delle comunità. Progetta e conduce workshop, laboratori e seminari destinati a studenti e adulti. Insegna presso master universitari.

Bibliografia

  • Fondazione Symbola, Unioncamere, Deloitte & Centro Studi “Guglielmo Tagliacarne” (2024). Io sono cultura 2024. La centralità della cultura come motore di innovazione sociale ed economica
  • CheFare (2024). laRivista #2 A cosa serve la cultura?, contributi di Niessen B., Giannella D., Carozzi I., Ricci M., Patacchini E. C., Pacifico F., Cossu A., Zedda M. P., Ippolita, Dubini P., Bonini T., Carnevali D., Sinigaglia S., D'Ovidio M., Brambilla G., D'Amico F. D., Verona F. e Mancuso M.
  • Carazzone, C., Vita (2018). Due miti da sfatare per evitare l’agonia del Terzo Settore
  • Attali, J. (2010). Sopravvivere alle crisi: sette lezioni di vita, Fazi Editore
  • De Toni, A. F., & Comello, L. (2005). Prede o ragni? Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità, Utet Università