di Franco Broccardi 

Ernst Mayr, tra i più influenti biologi del Novecento, ha formulato un pensiero tanto controintuitivo quanto illuminante: il successo evolutivo di una specie è inversamente proporzionale alla sua intelligenza. Un'affermazione che potrebbe sembrare paradossale ma che, alla luce dei dati biologici, trova conferme consistenti. Specie come i batteri o gli insetti, capaci di adattamenti rapidi o di vivere in nicchie ecologiche estremamente resilienti, prosperano e sopravvivono in modo capillare. Al contrario, animali dotati di più sofisticate capacità cognitive affrontano maggiori difficoltà nel mantenere il proprio equilibrio con l'ambiente circostante.

Questa riflessione ci interroga su un tema ancora più vasto: l'intelligenza, se non governata, può diventare un ostacolo alla sopravvivenza. "L'intelligenza è una mutazione letale", ammoniva Mayr[2]. quando essa non viene accompagnata da saggezza, responsabilità, visione collettiva. Nel contesto umano, questa deriva si manifesta nel nostro rapporto con la natura, con il potere, con le risorse. E anche con la conoscenza stessa: troppo spesso, infatti, la cultura viene considerata uno strumento di distinzione, di esclusione, di potere simbolico, piuttosto che un patrimonio comune e condiviso. In questo senso, cultura e intelligenza condividono un destino ambiguo: possono elevarci o distruggerci.

Una cultura che non cambia è una cultura che si pietrifica. Il rischio è di trasformarla in tradizione nel senso più statico del termine: un corpus di abitudini e simboli cristallizzati, tramandati non più per ispirazione, ma per inerzia. La tradizione, spesso mitizzata, viene proposta come un deposito sacro da conservare integro, al punto da escludere ogni forma di rinnovamento. Ma è davvero così che si onora la memoria del passato? Oppure stiamo solo mascherando la paura del cambiamento dietro una presunta fedeltà alle radici?

Nel linguaggio della conservazione, possiamo paragonare questa attitudine a un parquet pregiato che viene nascosto sotto strati di tappeti per evitare che si rovini, negandone la bellezza. Oppure a un oggetto museale sigillato in una teca: visibile ma intoccabile, quindi, in un certo senso, morto. Come se la cultura fosse un campo da preservare con barriere, e non un terreno fertile da coltivare, potare, riseminare.

Eppure, anche le istituzioni culturali più tradizionalmente votate alla conservazione stanno rivedendo il proprio ruolo. Steven Conn, storico della cultura americana, ha provocatoriamente pubblicato un libro dal titolo provocatorio: Do Museums Still Need Objects?[3] La sua tesi è che il museo del XXI secolo debba trasformarsi da luogo di custodia a spazio di dialogo, esperienza, partecipazione. Non è più sufficiente esporre reperti: bisogna costruire storie, contesti, percorsi di senso. E se perfino i musei iniziano a ridefinire la propria funzione, perché non dovremmo farlo anche noi, come individui e come collettività?

Un'esposizione come Tra - Edge of Becoming, allestita qualche anno fa a Palazzo Fortuny a Venezia, ha cercato di restituire proprio questa idea: la cultura come movimento, come trasformazione continua. Il "tra" diventa un luogo simbolico e reale, quello spazio liminale tra ciò che eravamo e ciò che potremmo diventare. È la soglia tra la memoria e il futuro, tra l'identità e il divenire. Una zona di transizione che richiede apertura, curiosità, e anche un pizzico di follia.

“Talvolta devi rompere il vuoto per creare la trasformazione. Talvolta devi lasciare la tua casa per trovare la casa. Il dolore del lavoro è la nascita di nuova vita. Dopo la sofferenza c'è la guarigione”[4].

La vera cultura non è un rifugio ma un atto di coraggio. Richiede di abbandonare le certezze per affrontare l'incertezza. E questa è una lezione importante anche per chi si ostina a confondere la cultura con l'identità rigida, con l'appartenenza esclusiva, con l'immobilismo.

Un oggetto da solo, come un libro, un dipinto o una canzone, non ha valore culturale intrinseco se non viene condiviso, interpretato, inserito in una narrazione collettiva. La cultura non è fatta di reliquie, ma di relazioni. Non è una collezione di cose, ma una rete di significati. Onorare il passato non significa imbalsamarlo, ma renderlo vivo nel presente. Cultura è anche interpretazione, è il processo attraverso cui un significato viene continuamente riconfigurato e restituito al presente.

E allora, dove si trova oggi la cultura? Quali forme assume? Chi la produce? E, soprattutto, chi ha il diritto di definirla?

Wattpad, con i suoi 93 milioni di utenti mensili, è una piattaforma letteraria globale. Ospita circa 600 milioni di racconti, e costituisce un ecosistema narrativo popolare e decentralizzato, privo di barriere editoriali, orientato all'accesso e alla partecipazione. Rappresenta la democratizzazione della narrazione: chiunque può scrivere, leggere, commentare. Una nuova agorà letteraria in cui la creatività non ha confini. Non è questa cultura? Ed è una cultura che sfida le gerarchie tradizionali: nessun editore, nessun critico, solo lettori e autori che si influenzano a vicenda.

Anche i tatuaggi parlano. Sono forse la forma d'arte più antica ancora praticata, e portano sulla pelle storie, credenze, emozioni, appartenenze. In alcune culture sono rituali sacri; in altre, espressioni individuali; in altre ancora, simboli politici. La loro dignità artistica e culturale è oggi riconosciuta anche da istituzioni accademiche, come l'Accademia di Belle Arti di Udine, che ha creato un corso dedicato. Non è anche questa una forma di patrimonio immateriale? E non è significativo che un linguaggio corporeo venga finalmente accolto come disciplina teorica e formativa?

La musica, poi, è forse l'esempio più lampante della trasformazione culturale in atto. Le piattaforme digitali come YouTube, Spotify, TikTok o SoundCloud hanno rivoluzionato la fruizione, la produzione e la diffusione musicale. YouTube, in particolare, ha dato vita a carriere globali, da Justin Bieber a Lil Nas X, e ha ospitato brani diventati simboli politici o culturali, come This is America di Childish Gambino.

Il fenomeno degli artisti indipendenti è esploso: creatori che autoproducono, autopromuovono, autogestiscono le loro carriere, bypassando le logiche delle major. Un esempio paradigmatico di empowerment culturale. In questo scenario, la distinzione tra artista e pubblico si fa più sfumata: tutti possono creare, condividere, influenzare. E la cultura musicale si frammenta in micro-scene, in tribù digitali, in sottoculture fluide che dialogano attraverso meme, sfide virali, remix, mashup. L'opera musicale non è più chiusa, ma è sempre in divenire.

Nonostante questi mutamenti, alcune narrazioni resistono. C'è ancora chi pretende di stabilire cosa sia cultura “vera” e cosa no, come se la cultura fosse una lista chiusa. Ricordiamo ad esempio l’uscita di un ex sottosegretario alla cultura che, riferendosi al rap, lo contrappose con supponenza ai classici della musica europea: “Preferisco Chopin a qualsiasi rap”[5].

Ma l’arte non è mai stata monolitica. La cultura è una tensione costante tra conservazione e cambiamento, tra eredità e innovazione. E soprattutto, la qualità di un'opera non è legata al suo genere ma alla sua capacità di parlare al tempo in cui vive. Chopin non ha più valore di Kendrick Lamar solo perché è studiato nei conservatori. Entrambi esprimono la propria epoca, e in questo senso sono entrambi culturali. Anzi, si potrebbe sostenere che chi opera nel presente ha la responsabilità di rispondere ai problemi del proprio tempo: razzismo, disuguaglianze, crisi ecologiche, digitalizzazione.

La cultura è anche questo: uno specchio critico. Non una fuga, ma un confronto. Per questo artisti contemporanei come Childish Gambino, Billie Eilish o Banksy, con linguaggi diversi, provocano, mettono a disagio, destabilizzano. Il loro scopo non è soltanto estetico, ma etico e politico. Essi incarnano un’idea di cultura attiva, trasformativa, in grado di incidere sulla realtà.

Non a caso, la Commissione Nazionale Tedesca per l’UNESCO ha recentemente riconosciuto la scena techno berlinese come patrimonio culturale immateriale. [6]. Per dire. Un atto che sancisce come anche luoghi alternativi, periferici, spesso marginalizzati siano in realtà fulcri di innovazione artistica e sociale. Il club, il rave, il dancefloor diventano spazi dove si ridefiniscono le identità, si sperimenta il corpo, si esplorano nuove forme di convivenza.

E se ci spostiamo sul piano dell’economia culturale, notiamo come questi ambiti generino valore. Le industrie creative – musica, videogiochi, moda, editoria indipendente, social content – sono tra i settori più dinamici a livello globale. Eppure, faticano ancora a essere riconosciuti nella loro piena legittimità. Viene ancora contrapposta una cultura “alta” e una “bassa”, dimenticando che spesso è proprio la cultura popolare a intercettare meglio i bisogni e le narrazioni delle persone.

Pensiamo anche al fumetto. Un tempo relegato alla subcultura, oggi entra nei festival letterari, nelle università, nei musei. Zerocalcare è stato ospite alla Biennale di Venezia, e i graphic novel sono adottati nelle scuole. Come per il rap, anche qui si è dovuto lottare contro pregiudizi: che fosse “troppo semplice”, “non abbastanza nobile”. Ma ogni linguaggio ha la sua dignità, se riesce a creare senso, connessione, emozione.

In definitiva, cultura è ciò che permette di immaginare mondi. È ciò che ci rende capaci di narrare, interpretare, trasformare la realtà. È una lente e una fucina. E oggi più che mai, non si dà cultura senza pluralità, senza ibridazione, senza ascolto.

Questa visione plurale della cultura trova sostegno anche nelle teorie di Raymond Williams, uno dei padri dei cultural studies, che definiva la cultura come un "modo di vita", comprendente non solo le forme artistiche canoniche, ma anche le pratiche quotidiane, i consumi, i riti popolari. Williams sosteneva che ogni società produce molteplici culture, spesso in conflitto tra loro, e che l'egemonia culturale (Gramsci) si esercita proprio nel tentativo di presentare una di queste come “la” cultura.

Allo stesso modo, Pierre Bourdieu ha mostrato come il gusto culturale sia frutto di un habitus sociale, e non un fatto naturale o oggettivo. La distinzione tra cultura alta e bassa riflette piuttosto i rapporti di potere e le strutture di classe. Da questo punto di vista, riconoscere il valore del rap, del tatuaggio, del fumetto, delle piattaforme digitali, significa anche mettere in discussione i dispositivi di legittimazione culturale tradizionali.

A livello internazionale, anche realtà istituzionali stanno adattando queste visioni. L’UNESCO, oltre al caso della scena techno berlinese, ha inserito nella lista del patrimonio culturale immateriale le pratiche del reggae giamaicano, l’arte dei pizzaioli napoletani e il tango argentino, riconoscendo così l’importanza delle culture “vive”, legate alla collettività e alla trasmissione orale.

Un esempio emblematico è il MOMA di New York, che ha recentemente riorganizzato le sue collezioni secondo criteri non cronologici ma tematici e interculturali, abbattendo la centralità eurocentrica e mettendo in dialogo arte africana, asiatica e contemporanea occidentale. Anche la Tate Modern di Londra ha ampliato la propria collezione includendo artisti provenienti da contesti minoritari e non occidentali, riconoscendo che l’arte globale non può più essere raccontata da un unico punto di vista.

In definitiva, cultura è ciò che permette di immaginare mondi. È ciò che ci rende capaci di narrare, interpretare, trasformare la realtà. È una lente e una fucina. E oggi più che mai, non si dà cultura senza pluralità, senza ibridazione, senza ascolto.

Per questo, oggi più che mai, la domanda non è solo “che cos’è cultura?”, ma anche: “di chi è la cultura?”. Chi ha diritto di esprimersi? Chi decide cosa vale e cosa no? E con quali strumenti possiamo garantire un ecosistema culturale inclusivo, democratico, vivo? Perché cultura non è solo ciò che produciamo. È il modo in cui viviamo insieme. Il nostro linguaggio contemporaneo.


Franco Broccardi è esperto in economia della cultura e della sostenibilità, arts management e gestione e organizzazione aziendale, è consulente, membro di cda e revisore di musei, teatri, gallerie d’arte, fondazioni, festival e associazioni culturali.

Si occupa di consulenza e formazione per fondazioni bancarie, istituzioni pubbliche e private in materia in materia di terzo settore, gestione e organizzazione di istituzioni culturali e di mercato dell’arte.

Co-fondatore e partner dello studio Lombard DCA di Milano e fondatore e curatore della rivista ÆS Arts+Economics.

Professore a contratto in Economia del patrimonio culturale presso l’Università degli Studi di Bergamo. Tra le altre cariche è presidente della commissione di Economia della Cultura presso la Fondazione Nazionale di Ricerca dei Commercialisti, consulente per le politiche fiscali di Federculture, membro del gruppo di lavoro Bilancio sociale di ICOM Italia – International Council of Museums, consulente di ADEI – Associazione Degli Editori Indipendenti.


NOTE

[2] E. Mayr, What Makes Biology Unique? Considerations on the Autonomy of a Scientific Discipline, Cambridge University Press, 2004

[3] S. Conn, Do museums still need objects?, University of Pennsylvania Press, 2010

[4] https://fortuny.visitmuve.it/it/mostre/archivio-mostre/tra-edge-of-becoming/2011/06/6455/progetto-59/

[5] https://twitter.com/VittorioSgarbi/status/1728483767201698030

[6] L'organizzazione non-profit Rave The Planet ha seguito un percorso articolato per ottenere il riconoscimento della cultura techno di Berlino come patrimonio culturale immateriale da parte della Commissione Nazionale Tedesca per l'UNESCO. L'idea originaria risale al 2011, quando il matematico e musicologo svizzero Hans Cousto, cofondatore di un'associazione presso il Kunsthaus Tacheles di Berlino, propose per la prima volta di candidare la techno come patrimonio immateriale. Nel 2018 questa proposta venne ripresa con la fondazione di Rave The Planet, guidata da Matthias Roeingh (noto come Dr. Motte) e Ellen Dosch-Roeingh. Tra il 2018 e il 2022 l'organizzazione ha lavorato alla preparazione della candidatura, coinvolgendo esperti e consulenti, conducendo ricerche approfondite, intervistando numerosi attori della scena culturale techno e realizzando un documentario di supporto con la casa di produzione 25films. La prima presentazione della candidatura fu respinta nel 2022 dal Dipartimento per la Cultura e l'Europa del Senato di Berlino, ma nel marzo 2023 la Commissione Tedesca per l'UNESCO e la Conferenza dei Ministri della Cultura si mostrarono favorevoli all'iniziativa. La candidatura fu allora perfezionata e ripresentata alla fine di maggio 2023. Il riconoscimento ufficiale arrivò infine il 13 marzo 2024, quando la cultura dei club techno di Berlino venne inserita nel Registro Nazionale del Patrimonio Culturale Immateriale della Germania, sancendo l'importanza della scena techno come espressione culturale viva e significativa - https://www.unesco.de/staette/technokultur-in-berlin/