Alberto Improda

Il contesto economico-sociale in cui si trovano oggi ad operare le Imprese Creative e Culturali, caratterizzato da alcune peculiari specificità, viene da più parti identificato con la definizione di Economia della Conoscenza.
La paternità del concetto viene usualmente attribuita all’economista austriaco Peter Drucker, che ne ha coniato il nome ed esplorato diversi aspetti già in un saggio del 1966, dal titolo “The Effective Executive”.
La Conoscenza, ovviamente, rappresenta un elemento che da sempre contraddistingue l’Uomo e lo accompagna nel suo percorso attraverso la Storia.
Fino a tempi relativamente recenti, tuttavia, i legami e le interazioni tra l’Economia e la Conoscenza mai erano stati oggetto di adeguata attenzione e di analitico studio.
Si suole stabilire la nascita di una Economia della Conoscenza in coincidenza con l’avvento del Capitalismo Liberale, all’inizio del XIX secolo, quando la Rivoluzione Industriale traspone il sapere scientifico all’interno dell’azienda e conduce ad un’ampia Meccanizzazione del lavoro e della produzione.
Nel corso dell’Ottocento, il Capitalismo Liberale evolve in quello che viene comunemente definito il Capitalismo Fordista, nell’ambito del quale la Conoscenza viene applicata in modo sistematico alla pianificazione del lavoro e dei suoi processi, introducendo il Management Scientifico della Produzione.
In questa fase, caratterizzata da una enfatizzazione dell’applicazione del Sapere all’interno alla fabbrica, si assiste ad una analitica parcellizzazione e standardizzazione del lavoro, organizzato secondo una struttura verticale e nettamente gerarchica, per dare luogo alla cosiddetta Produzione Industriale di Massa.
Nel Secondo Dopoguerra, il modello fordista inizia a mostrare i suoi limiti e diviene progressivamente meno centrale, contestualmente alla diffusione di un modello di Capitalismo Post-Fordista, in cui la Conoscenza si svincola dalla stretta attinenza alla singola azienda e comincia a diffondersi nella società.
Il Sapere, in questa nuova fase, si libera dai beni materiali ai quali viene applicato ed inizia a vivere di vita propria, penetrando pervasivamente nella realtà; da ciò consegue una proliferazione delle imprese ed un dimensionamento più snello dell’azienda, con un graduale superamento delle strutture organizzative verticali e gerarchiche, per l’affermazione di un paradigma organizzativo spiccatamente reticolare e orizzontale.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, infine, si assiste al superamento del modello di Capitalismo Post-Fordista e all’affermazione del cosiddetto Capitalismo Cognitivo: i fenomeni della Globalizzazione e della Rete determinano una propagazione della Conoscenza con una vastità e con una velocità storicamente inedite.
Il Sapere, conseguentemente, rompe qualsiasi residuo vincolo con i suoi supporti materiali e con i gangli della specifica impresa, per assumere una valenza maggiormente autonoma e potenzialmente universale.
Possiamo dire che il Capitalismo moderno, sin dai suoi albori, è sempre stato una Economia della Conoscenza, nel senso che il valore è stato nelle varie epoche storiche costantemente prodotto dalla organizzazione, dallo sfruttamento e dall’accrescimento del sapere disponibile, ovviamente secondo modelli e con modalità di volta in volta differenti.
Ma, come si accennava in premessa, quella attuale viene usualmente considerata l’epoca della Economia della Conoscenza per antonomasia.
Nell’ambito degli studi accademici, peraltro, non si è mai addivenuti ad una definizione pacifica e condivisa di Economia della Conoscenza (Vincenzo Zeno Zencovich – Giovanni Battista Sandicchi, L’Economia della conoscenza e i suoi riflessi giuridici, in Diritto informazione e informatica, 2002, 971).
La posizione più comunemente accolta ritiene che questa espressione indichi un sistema nel quale: i) vi sia una elevata quota di occupazione con alto grado di competenza; ii) il peso dei settori collegati all’informazione e alla cultura è particolarmente significativo; iii) la quota di capitale intangibile nello stock di capitale totale risulta prevalente rispetto a quella del capitale fisico (Dominique Foray, L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006, 9).
Tale definizione appare coerente con quella fornita dalla Commissione Europea: “L’espressione “economia della conoscenza” indica in genere un’attività economica che non si basa soltanto su risorse “naturali” (come l’agricoltura e le miniere) ma anche su risorse “intellettuali”, come il know-how e le competenze specialistiche. Alla base del concetto di economia della conoscenza è il riconoscimento che il sapere e l’istruzione (chiamati anche “capitale umano”) possono essere considerati beni commerciali o prodotti e servizi intellettuali che possono essere esportati con profitto” (AA.VV., il diritto d’autore nell’economia della conoscenza, in UE – Libro Verde, 16 luglio 2008, 466).
E’ stato anche detto, con approccio meno economicistico: “quando si afferma che la civiltà del nuovo millennio è connotata dal fine della conoscenza, per cui viene detta “knowledge” ovvero “information” society, ci si riferisce al paradigma culturale per il quale ciò che definisce l’uomo (e con lui l’esperimento della vita) è la sua attitudine a perseguire un sempre migliore adattamento, acquisendo sempre maggiore informazione e conoscenza” (Alfredo Viterbo – Arnaldo Codignola, L’informazione e l’informatica nella società della conoscenza, in Diritto informazione e informatica, 2002, 23).
Secondo un’accezione particolarmente diffusa, il significato dell’Economia della Conoscenza risiede negli effetti di quella che Paul Romer ha definito una “soft revolution”: nella nostra società, secondo l’economista statunitense, hanno assunto, dal punto di vista economico e non solo, una inedita centralità quegli elementi definiti di volta in volta “soffici”, “immateriali”, “intangibili”.
Possiamo insomma considerare un principio riconosciuto l’assunto per cui “l’economia della conoscenza fondata sul sapere e sul lavoro intellettuale è una novità epocale, che costituisce, al tempo stesso, lo sviluppo e il superamento della società industriale, fondata sulle macchine e sul lavoro manuale in fabbrica, che a sua volta ha costituito lo sviluppo e il superamento dell’economia agricola, fondata sulle piante e sugli animali domesticati e sul lavoro manuale nei campi” (Bruno Arpaia – Pietro Greco, Pietro, La cultura si mangia!, Guanda, Parma, 2013, 39-40.
In questo inizio di Terzo Millennio, dunque, “si è passati da un sistema in cui la maggior parte del valore era data da input fisici – lavoro, macchinari, materia prime – a un sistema in cui la maggior parte del lavoro è prodotta da input immateriali legati alla conoscenza, all’intelligenza e alla creatività umane, condizioni fondamentali per trasformare i saperi in innovazione e sviluppo. Perché è la capacità di innovare, creare continuamente, piuttosto che quella di produrre o ri-produrre meccanicamente, che oggi consente di costruire vantaggi distintivi e duraturi” (Irene Tinagli, Talento da svendere, Einaudi, Torino, 2008, IX).
Le peculiari caratteristiche dell’Economia della Conoscenza determinano conseguenze di primaria importanza sul ruolo, nell’ambito del Contemporaneo, delle Imprese Creative e Culturali.
La Conoscenza, come abbiamo visto, rappresenta oggi la materia prima per eccellenza, il fattore propulsivo e determinante per lo sviluppo dell’economia e il progresso della società.
Essa rappresenta per sua stessa natura un fenomeno fortemente dinamico e ha bisogno di essere costantemente incentivata, sviluppata, ampliata, dotata di contenuti nuovi e innovativi.
La Conoscenza, data la velocità e la vastità con cui ne avviene la propagazione e l’utilizzo, nella società dei nostri giorni tende a divenire rapidamente consumata ed obsoleta, ragion deve essere continuamente alimentata con contenuti inediti e originali.
Nella Economia della Conoscenza, conseguentemente, assume una valenza di fondamentale importanza la costante ed effettiva produzione di nuovi contenuti.
Sebbene il termine Produzione sia comunemente utilizzato come sinonimo di Creazione, qui intendiamo volutamente enfatizzare il primo lemma, per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, la parola Produzione, evocando il pensiero marxiano e l’insegnamento di Benjamin, mette in risalto l’ampiezza del concetto di innovazione al quale si vuole fare riferimento, producente un impulso che certamente tocca l’ambito artistico e culturale, ma investe l’intera realtà economica e sociale.
In secondo luogo, la parola Produzione mette in rilievo l’inserirsi dell’attività in esame nel suo contesto storico, con tutte le conseguenze derivanti dall’utilizzo dei materiali esistenti e preesistenti, per un deciso allontanamento dall’auratico assunto della “formazione ex nihilo” e dal “mito della creatività e della poesia come “fiat” a un passo dal divino” (Francesco Muzzioli, Letteratura come produzione, Napoli, 2010, 38).
La produzione di contenuti, insomma, oggi svolge un ruolo cruciale nel funzionamento della Economia della Conoscenza, che senza nuovi input viene a perdere la sua spinta vitale e a stagnare in una stazionaria ripetitività.
Questo significa che le Imprese Creative e Culturali, organizzazioni atte per loro stessa natura a produrre contenuti sempre nuovi, nel Contemporaneo vedono enfatizzata propria bifida natura e si trovano chiamate ad una duplice missione.
Da un lato, infatti, in quanto enti di stampo imprenditoriale, esse non possono certo perdere di vista le proprie funzioni sul versante privatistico, restando organizzazioni preposte a creare profitto e valore per i propri shareholder e stakeholder.
Dall’altro lato, però, le ICC sono interessate da un netto ampliamento dei propri compiti sul profilo pubblicistico, risultando la produzione di contenuti insita nella loro attività un necessario ed insostituibile carburante per il funzionamento dell’economia.
Le Imprese Creative e Culturali, dunque, portando avanti le proprie attività, oggi producono effetti al tempo stesso nel campo del Privato, realizzando valore di stampo aziendale e profitto per la compagine imprenditoriale, e nell’ambito del Pubblico, immettendo contenuti nuovi nell’ambito della società e svolgendo così una funzione a favore dell’intera collettività.
Tale assunto pone sotto una luce nuova anche il rapporto tra le ICC e gli istituti della Proprietà Intellettuale, a loro volta caratterizzati dalla natura di strumenti ontologicamente preposti a conseguire una pluralità di obiettivi.
Il Design, il Diritto d’Autore e il Brevetto per Invenzione, rispondendo invece il Brand a logiche piuttosto diverse, risultano infatti accomunati dall’essere destinati a soddisfare distinti ordini di esigenze, contemperando obiettivi diversi e astrattamente contrapposti.
Da un lato, gli IPR in questione rivestono una funzione di tutela degli interessi personali dei titolari, sancendone il diritto a godere dei frutti morali e patrimoniali scaturenti dalla propria creatività.
Dall’altro lato, il Design e il Brevetto sono posti dall’ordinamento a salvaguardia dell’interesse della collettività a vedere questi stessi frutti rientrare nel patrimonio cognitivo pubblico.
Tale seconda funzione usualmente non viene collegata al ruolo del Diritto d’Autore, istituto di particolare importanza per il funzionamento delle ICC ed oggi spesso oggetto di contestazione.
Il Diritto d’Autore, a differenza di altri fenomeni giuridici, si è sviluppato in epoche relativamente recenti e dunque può in qualche modo essere considerato un portato della modernità.
Sebbene in Italia, segnatamente nel Ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia, già nel Cinquecento si conosca il fenomeno dei Privilegi riconosciuti dalle pubbliche autorità in favore degli stampatori, l’origine del Diritto d’Autore vero e proprio viene comunemente fatta risalire all’English Copyright Act del 1709.
In tale atto, emanato dalla regina Anna d’Inghilterra, viene infatti promosso “the encouragement of learning, by vesting the copies of printed books in the authors of purchasers of such copies during the thimes therein mentioned”.
Si afferma così il copyright quale diritto esclusivo alla riproduzione, inizialmente riconosciuto alle sole opere suscettibili di essere riprodotte a mezzo stampa, con una connotazione di stampo nettamente utilitarista.
Il diritto di esclusiva, in questa fase, trova il suo fondamento nel rispetto per la componente più prettamente lavorativa dello sforzo produttivo, risultando in secondo piano il gradiente di personale originalità dell’autore, del quale non vengono protetti i diritti morali.
L’istituto viene poi disciplinato in maniera più strutturata da una legge federale degli Stati Uniti del 1790 e soprattutto dalle leggi della Francia rivoluzionaria in materia di proprietà letteraria e artistica, introdotte nel 1791 e nel 1793.
Queste ultime introdussero la distinzione – divenuta propria del modello latino – tra diritti patrimoniali e diritti morali, basandosi sui concetti propri della dottrina filosofica giusnaturalistica.
L’opera dell’autore così dalla fine del Settecento viene ritenuta oggetto di sacra e inviolabile proprietà, fondata sull’incomprimibile diritto naturale degli uomini a godere dei frutti delle proprie fatiche.
Ragioni storiche, dunque, hanno fatto in modo che il Diritto d’Autore si sia sviluppato, fino ai giorni nostri, secondo logiche fortemente ancorate al paradigma della proprietà, in un continuo contemperamento dei principi propri dell’utilitarismo e del giusnaturalismo.
Da più parti oggi si ritiene che l’istituto, proprio per questo suo forte ancoraggio alla propria natura dominicale, rappresenti uno strumento ormai obsoleto e anacronistico, auspicandone un radicale superamento.
Certamente il Diritto d’Autore costituisce un istituto che deve essere oggetto di un attento ripensamento, in quanto investito in maniera particolarmente diretta dalle novità tecnologiche che in questi anni stanno sopraggiungendo ad un ritmo sempre più intenso.
In particolare dal punto di vista delle ICC, tuttavia l’argomento deve essere affrontato in modo realistico e pragmatico, senza mai perdere di vista un concetto imprescindibile: il Diritto d’Autore rappresenta uno strumento per consentire ai Produttori di Contenuti di immettere nella società elementi sempre nuovi di novità e creatività, essenziali per il funzionamento dell’Economia della Conoscenza e per il progresso della collettività.
Qualsiasi intervento sul Diritto d’Autore, quindi, deve essere calato in modo concreto e positivo nella effettiva società dei nostri giorni, tenendo conto delle sue specifiche caratteristiche ed evitando affascinanti ma perniciose fughe in avanti.
Ad avviso di chi scrive, insomma, un ripensamento del Diritto d’Autore, con il suo decisivo ruolo nella sfera giuridica dei Produttori di Contenuti, oggi non può prescindere dal considerarne anche gli aspetti economici ed una sua funzione lato sensu retributiva.
Nell’ottica di visioni maggiormente teoriche e proiettate nel futuro, si potranno certamente fare ragionamenti diversi ed elaborare costruzioni di natura meno prosaica.
In una Società Collaborativa quale quella prefigurata da Jeremy Rifkin, ad esempio, il Diritto d’Autore ben potrà avere un ritorno esclusivamente in termini di visibilità, reputazione e attenzione (La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del “common” collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano, 2014, 3).
Oppure in una avveniristica Economia del Gratis, come quella delineata da Chris Anderson, l’istituto potrà probabilmente essere depurato, in tutto o in parte, del suo tradizionale aspetto retributivo (Free, Rizzoli, Milano, 2009, 13).
Ma, ragionando ex nunc e rebus sic stantibus, tenendo conto dell’odierno modello economico e sociale, appare evidente che i Produttori di Contenuti possono continuare a operare e immettere nel sistema elementi di originalità e di innovatività solo traendo da ciò anche un adeguato ritorno economico.
Ci piace qui menzionare una celebre frase tradizionalmente attribuita a Monsieur Beaumarchais, capofila nel 1850 degli artisti aderenti alla SACEM, struttura operativa in Francia ed equivalente alla nostra SIAE:
“Si dice che non è nobile per gli autori, battersi per gli interessi materiali quando si è in attesa della gloria. In effetti la gloria è molto invitante ma non ci si può dimenticare che per godere della bellezza di un solo anno solare, la natura ci condanna a 365 pasti!“.
Insomma, appaiono allo stato inattuabili e sostanzialmente velleitarie le ipotesi, formulate sulla scorta di astratti e per certi versi futuribili principi di Condivisione e Gratuità, che prevedono l’immediato superamento tout court del Diritto d’Autore, oppure una sua radicale riforma con l’estromissione dal suo ambito della componente economica.
Giovanni Solimine scrive in modo condivisibile: “Per quanto queste suggestioni possano esercitare un certo fascino, va detto che senza un’equa remunerazione di chi investe il proprio tempo, le proprie capacità e il proprio danaro nella produzione intellettuale – autori ed editori, quindi – si potrebbe correre il rischio di spegnere l’industria della creatività” (Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2014, 110).
“Né le riflessioni ad oggi maturate, né le verifiche e simulazioni sin qui svolte consentono di concludere che ai fini della realizzazione e diffusione soddisfacente di beni immateriali sia ragionevole e quindi auspicabile smantellare il sistema dell’esclusiva”, sostiene lucidamente Valeria Falce (La Modernizzazione del diritto d’autore, Torino, 2012, 4).
Tirando a riva le reti dei discorsi sopra sviluppati, pare il caso di tornare a sottolineare che le Imprese Creative e Culturali, in quanto enti Produttori di Contenuti, nella odierna Economia della Conoscenza rivestono una inedita centralità e una peculiare importanza.
Le ICC, infatti, immettendo nella realtà contenuti originali, innovativi e inventivi oggi svolgono anche una funzione nell’interesse della collettività e dell’intera società, producendo il materiale propellente per il suo sviluppo economico e sociale.
Per adempiere al meglio a questo ruolo di natura latamente pubblica, le Imprese Creative e Culturali trovano strumenti di straordinaria utilità e grande attualità in alcuni istituti della Proprietà Intellettuale: il Design, il Brevetto e il Diritto d’Autore.


Alberto Improda è Managing Partner dello Studio Legale Improda e il Presidente del Centro Studi e Ricerche Improda, docente presso diversi enti universitari e istituti di studio a Roma e a Milano, svolge il ruolo di speaker in conferenze, convegni e workshop, organizzati nelle varie aree del Paese da associazioni industriali, camere di commercio ed enti associativi. È presidente di Fondazione Città Italia e Centro Studi Cross Route Impresa, vicepresidente in Cultura Italiae e nell’associazione culturale Entroterra, membro del consiglio direttivo di ESG European Institute e del consiglio di amministrazione di Forma Mentis.