Lo scorso 24 novembre 2023 un gruppo di scienziati e studiosi, moderati dal partner dello Studio Lombard DCA Franco Broccardi, si sono ritrovati in un incontro organizzato dalla associazione Amici di Duccio in occasione di Maestrale. Fe- stival d’arte, scienza e cura sociale. Si trattava di Alessandro Aiuti, medico ematologo e immunologo specializzato in malattie genetiche rare del sistema immu- nitario; Andrea Biondi, direttore del San Gerardo di Monza, genetista molecolare della leucemia; Annalisa Cicerchia, economista della cultura e vicepresidente del Cultural Welfare Center.; Enzo Grossi, neuropsichiatra infantile, coordinatore del corso su “Cultura e salute” all’interno della Facoltà di Biomedicina dell’Università della Svizzera Italiana; Martino Introna, direttore del centro di Terapia Cellulare e Genica presso la Ematologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo; Ersi- lia Vaudo, astrofisica, ESA Senior Advisor on Strategic Evolution e Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea. L’argomento di cui sono stati chiamati a di- scutere è un tema che ultimamente è diventato quasi di moda: la cultura fa bene, la cultura come cura. Due espressioni, quasi due slogan, un po’ semplicistici e alquanto indeterminati che serve indagare, capire meglio. Ed era questo il senso dell’incontro.

Franco Broccardi: Io sono un grande fautore della teoria che lo sport guardato in televisione faccia bene alla salute ma voi medici, come una specie di inquisizione contro l’eretico, sostenete di no. E allora, perché siete più benevoli con la cultura quando dite che cura e che fa bene anche senza essere artisti ma solo spettatori? O la cultura è comunque più efficace se la si produce avendo un ruolo attivo? C’è poi l’idea generale che nella cultura, nell’arte e nella bellezza, che in realtà sono tre cose ben separate, troviamo una alternativa a Valium, Xanax, Tavor e Lexotan. Non c’è il rischio di ridurre il tutto ad una semplicistica idea di cultura come tranquillante? Il rapporto cultura/salute-benessere non è qualcosa di più? Guardare lo sport in televisione fa bene. Perché andare a vedere una mostra do- vrebbe fare meglio? Dove sta la differenza?

Andrea Biondi: Provo a rispondere secondo la mia esperienza di medico che si confronta con un mondo della sofferenza al quale non ci si abitua mai, e per il quale ho pensato, sin dall’inizio, a tutto quello che può essere importante per la vita di un bambino o di un adolescente e che risulta drammaticamente interrotta nelle sue aspirazioni, ho sperimentato che l’attenzione a tutte queste dimensioni non mediche che si chiamano musica, sport, pittura, fotografia, cioè tutte quelle espressioni che certo non hanno a che fare con la vita della medicina, sono essen- ziali. Lo sono per quel benessere che, come lei, diceva suscita in ognuno di noi trovarsi di fronte al bello perché fa stare bene.

Franco Broccardi: Non c’è un po’ di retorica in questa narrazione? Parlando con il professor Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas, gli ho chiesto se la cultura facesse davvero bene. Lui mi ha risposto di no, che non c’è un’evidenza scientifica. Quindi chi ha ragione? E a che cosa fa bene la cultura?

Enzo Grossi: Abbiamo un fenomeno emergente di cui ci siamo accorti improv- visamente qualche anno fa perché è uscito con un rapporto dell’OMS che metteva in evidenza la mole di studi scientifici condotti nell’ambito dell’arte, della cultura e della salute. Siamo di fronte ad un macigno, perché si parla di migliaia di studi randomizzati sulla possibilità che l’esposizione alla bellezza attraverso varie forme artistiche e di partecipazione culturale impatti sia sulla possibilità di prevenire le malattie, sia sul fatto di “curarle”. Quindi le evidenze scientifiche ci sono, sono in crescita e sono molto solide. Quello che stiamo cercando di capire è come mai, com’è possibile tutto ciò. Su questo i neuroscienziati ormai da vent’anni hanno sviluppato una disciplina che si chiama “neuroestetica” che cerca di capire come il cervello reagisce agli stimoli di bellezza di varia natura. Si è scoperto che abbiamo un centro specializzato che probabilmente è il frutto dell’evoluzione dell’homo sapiens, che ha prodotto un centro che fosse sensibile alla bellezza e che ha spinto gli antenati a fare dei disegni bellissimi in caverne oscure perché volevano qualcosa di bello intorno a sé. E poi si è scoperto come questo circuito della bellezza può interagire su circuiti invece dannosi, che sono quelli dello stress o della paura, che determinano delle modificazioni fisiologiche negative come la produzione di cortisolo – l’ormone dello stress – che sono re- sponsabili dei danni dovuti alle condizioni per cui ci sentiamo sotto stress. Per questo, ad esempio, un ragazzo che ha una diagnosi di questo tipo diventa fragile proprio perché lo stress si impossessa di lui. La bellezza, invece, riesce a limitare questo fenomeno negativo.

Franco Broccardi: Quindi è solo una questione estetica e non di conoscenza?

Enzo Grossi: La conoscenza potenzia. Cioè, noi abbiamo la parte edonica che è l’effetto immediato della bellezza che percepiamo. Se a questo effetto riusciamo a sommare la possibilità di dare significato a questo, un’educazione, un appro- fondimento, la condivisione con altre persone, gli effetti vengono potenziati. Quindi la parte cosiddetta eudemonica degli effetti benefici spiega perché molto spesso le cose che facciamo agli altri ci danno più piacere rispetto a quando le facciamo da soli.

Franco Broccardi: Dott. Introna ho trovato queste due classifiche:

  • Everybody Hurts, REM
  • What a Difference A Day Makes, Aretha Franklin
  • Bridge Over Troubled Water, Simon & Garfunkel
  • Moon River, Danny Williams
  • Perfect Day, Lou Reed
  • Orinoco Flow, Celtic Woman O, se parliamo di musica classica:
  • La pastorale di Beethoven
  • il Concerto per flauto e arpa in D Major di Mozart
  • la quinta ancora di Beethoven
  • la settima di Haydn

Sono le classifiche stilate dall’Università di Leicester dei brani che fanno produr- re più latte alle mucche. Funziona così anche con gli umani? Quando parliamo degli effetti delle arti sul nostro sistema nervoso e sulla nostra psiche parliamo di un effetto indotto? È una questione di frequenze sonore, parlando di musica, o di altro? È una reazione fisica o mentale?

Martino Introna Sulle mucche non so, ma su di me Simon & Garfunkel hanno un effetto positivo e tutto il repertorio pop mi è vicino. A metà della notte mi è venuto in mente che non avevo preparato una frase per il nostro incontro. Quindi, mi sono svegliato tra le due e le tre, l’ora migliore che vi consiglio per riflettere, per ricordare di questa frase di Henry Poincarè, grandissimo matematico e fisico, che dice: “lo scienziato non studia la natura perché è utile farlo. La studia perché ne ricava piacere e ne ricava piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla e la vita non sarebbe degna di essere vissuta”. Io credo che questa frase davvero leghi moltissime delle nostre esperienze, sogni e desideri e anche delle nostre frustrazioni quando non riusciamo in qualcosa. Ma è questa forza che ti muove dentro con la voglia di innamorarti della natura e conoscerla. Questa è la base della voglia di penetrare la bellezza.

Franco Broccardi: Sempre sulla questione della bellezza, anche se qui parliamo quasi indistintamente di arte, cultura e bellezza come se si trattasse della stessa cosa, mentre sono tre cose ben distinte e anche molto personali, volevo chiedere al professor Aiuti se la bellezza si impara e, quindi, come funziona. Lo psicologo Shigeru Watanabe ha chiesto a un gruppo di persone di valutare dei disegni eseguiti da dei bambini classificandoli come belli o brutti (gli osservatori mostrano una grande uniformità in questo genere di giudizi). Successivamente lo studioso ha insegnato a dei piccioni a discriminare tra i due esemplari di alcune coppie di disegni. In ciascuna coppia un disegno era stato classificato in precedenza dalle persone come bello e l’altro come brutto. I piccioni, che ricevevano un premio se sceglievano il disegno bello, imparavano il compito con facilità. Ovviamente, ciò non dimostra nulla circa il loro apprezzamento estetico, semplicemente discriminavano tra due stimoli differenti. Ma adesso viene il bello, perché a questo punto lo scienziato giapponese pescava delle nuove coppie di disegni dall’insieme originario, mai vedute prima dagli animali. Senza bisogno di alcun addestramento, sin dalla prima prova i piccioni generalizzavano correttamente, scegliendo il disegno categorizzato come bello dagli osservatori umani. È un fatto genetico o può essere allenato? La bellezza si impara? E quello che ci fa bene lo fa allo stesso modo? Come funziona con i bambini? Perché, certamente, la percezione della cultura è diversa rispetto agli adulti. Viene inoltre da chiedersi: è giusto indirizzare verso canoni di bellezza come se fosse un’opera di prevenzione, o è preferibile, anche da un punto di vista medico, la spontaneità? Ci si può far bene da soli?

Alessandro Aiuti: Non so se la bellezza si impari dal punto di vista scientifico. Quello che sappiamo è che il nostro sistema immunitario, il nostro organismo ha delle straordinarie capacità di adattarsi e di riconoscere che cosa è proprio e che cosa non lo è. Se vogliamo fare una metafora: il sistema immunitario, che è uno straordinario mondo dal punto di vista dell’organizzazione, è un’orchestra che suona con tutte le sue varie componenti, deve farlo in maniera armonica, perfetta e coordinata e anche avere la capacità di riconoscere il bello e il brutto. Il brutto e il cattivo, l’estraneo è il germe, il microbo, e questa armonia e questo equilibrio sono necessari per il funzionamento e l’armonia dell’orchestra. Sappiamo che, delle volte, quando ci sono delle malattie del sistema immunitario, in presenza di un’incapacità di riconoscere qualcosa di estraneo e, quindi, di difendersi e di proteggerci, abbiamo malattie come le immunodeficienze congenite. In altri casi, abbiamo un eccesso di risposta o una risposta non coordinata, non bella, non perfetta ed è il caso delle malattie autoimmuni. L’equilibrio è, quindi, molto importante. Riguardo all’importanza dell’arte e alla correlazione tra arte e medicina, come medici dobbiamo mantenere un punto sulla creatività, sulla originalità. Ho trovato anche io una citazione di Debussy, anche se non alle due di notte come Introna, che ha detto “è l’arte che deve dettare le regole e non le regole che devono dettare l’arte”. Noi stiamo andando verso un mondo che è sempre più organizzato, coordinato, standardizzato e fatto di regole che servono per l’organizzazione, per mantenere tutto standardizzato, ma non dobbiamo dimenticarci che nell’arte di fare il medico – perché io la considero un’arte, qualcosa che puoi fare solo se hai passione, il fuoco sacro come si diceva una volta – bisogna mantenere sempre l’aspetto umano. Il fatto di dire che tutto quanto sarà determinato da algoritmi, robot e regole è sostanzialmente sbagliato. L’aspetto umano, sia di creatività, sia di originalità, non va dimenticato. Gli algoritmi non potranno mai completare le indagini scientifiche perché esisterà sempre un aspetto umano di originalità. E il rapporto umano, l’empatia è qualcosa che non può essere dimenticato.

Franco Broccardi: Giusto stamattina su Facebook ho trovato un bellissimo post di un esuberante sottosegretario alla cultura che si infilava in discorsi sul rap e sulla cultura classica dicendo, secondo me, in maniera abbastanza inopportuna, Della musica rap so poco. Per me la musica è Mozart, Puccini, Verdi e Chopin. Preferisco Chopin a qualsiasi rap e non mi pare che l’educazione possa venire dalla musica di Fedez...Viene meglio da Morgan che è colto e può insegnare Beethoven e non credo che possa farlo Fedez o qualche ‘rappista’. E comunque uno che sente Chopin non può uccidere... A questo proposito, siamo qui a parlare di cultura: ma che cos’è la cultura? Perché ognuno ha la propria e non è solo quella che immagina Sgarbi e su questo punto si possono creare nette crepe nel discorso. Se chiediamo se la musica sia cultura siamo tutti d’accordo. Se chiediamo del rock qualcuno, sempre di più, concorda. Prendo spunto da una intervista a Bertram Niessen che ha tirato in ballo i cosiddetti “rave party”: rilevanti momenti di musica dal vivo, che costituiscono occasioni di consumo culturale, molto seguiti e apprezzati, ma che non vengono considerati al pari dei concerti. Perché? A questi si aggiungono i contenuti realizzati sui social network come, ad esempio, quelli dei “booktocker”, giovani che presentano i libri con brevi video, ottenendo migliaia di visualizzazioni. È una questione di prospettiva. Ciò che è cultura per un sessantenne non è detto che lo sia per un ventenne. E viceversa. Novantatré milioni di utenti di tutto il mondo scrivono, leggono, commentano, decretano successi e fallimenti di opere letterarie su Wattpad. Senza intermediazioni, senza profitto, senza confini. Solo letteratura di tutti i tipi, livelli, generi. È cultura? Certo che lo è. E quindi qual è la cultura che “fa bene”? Erin Doom previene le malattie meno di Dostoevskij?

Annalisa Cicerchia: È una domanda facilissima di cui ti ringrazio! A parte l’iro- nia, la prendo un po’ alla lontana. Nel 1952 due antropologi americani pubblica- rono un libro sul concetto di cultura. All’epoca avevano contato 164 definizioni non formali ma sostanzialmente diverse. Quando noi ci addentriamo in questa dimensione, la questione non è accademica, ma è molto seria, perché è evidente che c’è tutta un’intera famiglia di modi di interpretare la cultura che hanno a che vedere, per esempio, con quello che si può chiamare concetto differenziale, cioè che ognuno ha una sua cultura e appartiene per via della sua famiglia, storia, di un sistema di valori e di uso dello spazio, di criteri di bello e non bello che possono essere propri ed è molto importante che sia rispettata la possibilità di averla e di praticarla, ma non è il punto su cui la nostra attenzione, quando ragioniamo del contributo dell’arte e della cultura al benessere e alla salute abbiamo in mente. Noi immaginiamo per fortuna un concetto più piccolo, più tascabile che è quello delle espressioni artistiche e delle manifestazioni culturali che hanno a che vedere, appunto come ricordavi tu prima, con la conoscenza, il patrimonio, quelle saldature che nel tempo le comunità umane si sono date capendo che c’è, oltre alla funzione, anche un altro livello da raggiungere. Io farei riferimento a quella accezione che è necessariamente a geometria variabile e qui è l’aspetto relativistico: pensate a quando è emerso il jazz ai tempi bollato come degenere e che ha invece componenti tecnici, di raffinatezza ed estetici straordinari. A me interessa un altro aspetto che recupero dalla visione più gerarchica e in ap- parenza elitaria della cultura che è dietro a quell’accenno dell’esuberante sottose- gretario di cui sopra che peraltro è una balla perché mi vengono in mente diversi assassinii organizzati da persone molto molto appassionate di musica classica. Ma non importa. Quello che vorrei mettere in evidenza è che indubbiamente noi possiamo anche dire che, se consideriamo arte, conoscenza e patrimonio alcune persone ne conoscono più di altre. Alcune persone hanno un accesso più facile e frequente, abitudinario alla cultura in tutte le sue dimensioni. Gli americani, ad esempio, differenziano la cultura in quella dell’élite e popolare. Il punto non è qual è la migliore, il punto è se io posso liberamente circolare tra tutte e trovarmi a casa. In Italia noi abbiamo un problema di enorme disuguaglianza nell’accesso. Dal lato delle persone i dati sono fermi (e sono andati giù maledettamente per la pandemia). Nel 2019 la nostra punta di diamante nella pratica culturale era la visita ai musei che interessava il 34% dei residenti italiani almeno una volta all’anno. Questo è il top che abbiamo raggiunto. Ci sono voluti 25 anni per fare salire di 9 punti questo dato percentuale. Abbiamo un problema. Dall’altro lato dell’offerta teniamo conto che noi abbiamo una disparità di terminali culturali sul territorio che è impressionante. Sui musei vado piano perché un giorno mi piacerebbe considerarli servizi culturali e per il momento lasciamoli da parte. Parliamo di biblioteche di pubblica lettura. Considerate che noi andiamo da una biblioteca più o meno ogni 6.500 abitanti nel nord ad una biblioteca ogni 65.000 abitanti nel sud. Bisogna dire altro? Il punto è che, se noi abbiamo una possibilità di accedere e di appropriarci liberamente della nostra cultura. Sono anche io più portata a Bridge Over Troubled Water, ma vale anche per il rap, perché no, o alla ricerca del bello presente nei tatuaggi. Non fermiamoci sul bello. Non cadiamo in questo equivoco. Io credo che gli studi dimostrino anche che il potere di lavorare sul nostro materiale emozionale e conoscitivo dell’arte riguarda anche l’esperienza del brutto, dell’orrido, il fatto di entrare in relazione con l’angoscia e tutta una gamma di emozioni che non è armonia fatta di ponti dorati ma è potentissima e alimenta il senso critico e la gamma di capacità con cui gli esseri umani affrontano la loro esistenza.

Franco Broccardi: Per poter introdurre un’astrofisica in un tema che apparente- mente non c’entra molto la prendo un po’ alla lontana. Nel libro di Ersilia Vaudo, Mirabilis, mi ha incuriosito molto la figura di Paul Dirac. Fisico bizzarro, scontroso tanto da veder coniata un’unità di misura con il suo nome per indicare il minor numero di parole in un lasso di tempo: una parola all’ora. Cosa c’entra un fisico teorico dal brutto carattere con l’arte? Un paio di riferimenti in realtà ci sono. Paul Dirac, viene annoverato tra i fondatori della meccanica quantistica ed è famoso per la sua equazione che dice che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce». Il primo è che Dirac era compagno di classe di Cary Grant e se è vera la sua teoria allora mi piace pensare che lui e il cinema possano avere qualcosa a che fare. L’altra è che nel 1933 Dirac vinse il nobel per la fisica insieme a, Erwin Schrödinger, quello del gatto, per i loro studi sulla meccanica quantistica che, come caratteristica fondamentale, descrive la materia sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare. Tutto questo influenzò ad esempio la fondatrice della danza moderna Isadora Duncan che proprio sul rapporto tra corpo e vibrazione basò tutti i suoi studi. E vale anche per la musica, no? Possiamo quindi dire che in qualche modo la meccanica quantistica funziona allo stesso modo del rapporto tra opera e spettatore? Come succede nella sua attività all’interno del progetto il cielo itinerante?

Ersilia Vaudo: Vorrei riprendere lo spunto della frase di Poincarè menzionata poco fa, l’idea che studiamo la natura non perché sia utile, ma perché è bella. Sono state pubblicate da poco le prime, magnifiche, immagini della sonda dell’ESA, Euclid, uno straordinario telescopio spaziale che ci aiuterà a comprendere meglio cosa si nasconde dietro l’espansione dell’universo, e ai grandi misteri della materia e dell’energia oscura. Sono “scatti” sorprendenti, un tripudio di colori, rossi, azzurri, giallo vivo, su uno sfondo nero che raccontano di stelle che nascono, di nubi di polvere e gas interstellare incandescenti, di galassie che si mescolano. Difficile non emozionarsi davanti a quello scrutare negli angoli del cosmo ricchi di meraviglie. Eppure, c’è un trucco. Quei colori non esistono. Vengono aggiunti successivamente. Pixel che, secondo convenzioni scientifiche legate a densità, temperatura o altro, prendono i colori dell’arcobaleno. Guardando quindi le foto di Euclid, pensavo come avrebbe reagito il mio cervello davanti alle stesse immagini, belle si, ma noiosamente grigie. Si sarebbe probabilmente distratto, passando ad altro. Il colore, così come la musica, sono potenti attivatori di emozioni. Lo sappiamo bene. Eppure, nell’Universo, non ci sono colori. E non c’è musica. La foto dell’Earthrise scattata da Bill Anders la sera di Natale del 1968 al quarto giro di Apollo 8 intorno alla Luna, è una delle foto iconiche che hanno cambiato il mondo. Certamente perché per la prima volta guardavamo indietro a noi stessi. Ma fu la bellezza di ciò che ci trovavamo davanti che ci tolse il respiro. Dietro il profilo grigio di una luna polverosa, sorgeva un pianeta, il nostro, che vibrava di colori, nel buio di una notta infinita. Mi chiedo quindi che ruolo abbiano avuto i colori, e la musica, e l’arte in genere nella nostra attrazione verso l’ignoto. Nel proporci una versione “bella” della natura, che ha trasformato, durante la nostra evoluzione, il desiderio di sopravvivere nel desiderio di una vita migliore. Che passa anche dalla curiosità e si trasforma in scienza.

Franco Broccardi: Per rimanere nel campo della fisica, professor Grossi, ad un certo punto lei cita la teoria del caos dicendo che semplici regole non sempre conducono ad un ordine stabile e la probabilità che piccole differenze nelle con- dizioni iniziali si riflettono in evoluzioni temporali completamente diverse, irre- golari e intrinseca a dinamici e andiamo a molti schemi dinamici piccole localiz- zate perturbazioni in una parte di un sistema complesso possono avere profonde ripercussioni in tutto il sistema. Nel momento in cui noi andiamo a parlare di arte che fa bene, a me è venuto in mente subito il fatto che stiamo andando verso un mondo in cui l’intelligenza artificiale sarà sempre più presente. Questa è una perturbazione che cambierà gli schemi di una cultura, di un’arte, di un’estetica che possono influenzare invece sull’intelligenza umana?

Enzo Grossi: Sicuramente questi fenomeni a cui stiamo assistendo sono anche un’espressione di una dinamica caotica in cui si viaggia per un certo periodo sottosoglia. Quando si raggiunge una soglia critica c’è un effetto esplosivo. Quel movimento, quel fenomeno tende ad una crescita esponenziale. Questo fa parte di un fenomeno fisico che è universale, fa parte dell’universo. Tutto si comporta in questo modo e lo abbiamo capito a partire da Poincarè che ha citato il collega che aveva scoperto senza saperlo il sistema caotico chiamato caos negli anni Sessanta dal meteorologo Lawrence e che descrisse sui modelli predittivi del tempo. L’intelligenza artificiale è un fenomeno che ci sta preoccupando da una parte e attraendo dall’altra. Adesso si sta insegnando all’intelligenza artificiale anche a suonare, a comporre delle musiche. C’è un programma, Melomix, con il quale chiedo all’intelligenza artificiale di creare una composizione melodica che possa influenzare in modo positivo il nostro cervello per un utilizzo benefico, come uti- lizzarla per dipingere un’immagine che altrimenti non sarei in grado di eseguire. C’è ovviamente anche la possibilità che qualcuno utilizzi l’intelligenza artificiale in modo negativo; questo sarà uno dei problemi che dovremmo affrontare nei prossimi anni: avere un controllo su queste applicazioni fuori scala da parte di menti non orientate in maniera positiva ma negativa.

Franco Broccardi: È uscito da poco, e se ne è parlato anche qualche giorno fa a Bookcity, un volume di Noemi Satta dal titolo “La cultura cura”, un libro che non parla di medicina, o almeno non direttamente, ma del “progettare nuovi centri culturali in tempi incerti”. In sostanza dell’avere cura dei luoghi. Spesso però non c’è cura dei luoghi nei luoghi di cura, che personalmente vorrei più che dignitosi: li vorrei dei luoghi accoglienti, belli. Quanto incide per un paziente, ma anche per chi lavora in un ospedale, abitare un luogo piacevole? E quanto questo, in termini di salute pubblica, vale anche per quello che esiste fuori dagli ospedali?

Andrea Biondi: Ahimè questo non è nel nostro DNA e nella nostra esperienza. Il privilegio della professione che vivo mi ha fatto sperimentare una cosa bella. Il Comitato dei genitori Maria Letizia Verga presso l’ospedale di Monza ha accolto la sfida condizionata dalla ristrutturazione ben impacchettata di tutto il resto dell’ospedale di farsi dare un pezzo del suolo dell’ospedale e di provare a imma- ginare qualcosa di diverso, e cioè sedersi con i protagonisti, le persone che lo vivono, genitori, ragazzi, infermieri, medici. È venuto fuori qualcosa di diverso anche nei dettagli, che sembrano banali, ma banali non sono. Se uno vuole avere uno spazio che sia poco ospedale ma più accoglienza, ad esempio, il pavimento si può fare diverso. È possibile, e non costa neanche di più dello standard. I requi- siti medici sono da rispettare, ma il contorno e l’insieme dove uno vive possono essere modificati. È possibile aggiungere come parte integrante tutto quello che può aiutare a stare meglio. Banalmente le pareti possono essere di diverso colore, possono avere immagini, può essere presente la musica, si può fare attività spor- tiva, basta dedicare uno spazio alla palestra. Ci si può chiedere “ma sarà costato di più?”. Penso proprio di no. È necessario cambiare la nostra mentalità. Bisogna fare esperimenti e in questo mi lego alla ricerca, perché le cose non si improvvisano, ma si provano, si fanno ipotesi, si verificano. I sogni si possono realizzare.

Franco Broccardi: Vivek Murthy, il Surgeon General degli USA, ovvero il mas- simo funzionario federale ad occuparsi di questioni di salute pubblica, ci ha in- formati che quasi la metà della popolazione americana soffre, in diverso grado, di solitudine esistenziale. L’ha definita un “epidemia di solitudine”. Solitudine e isola- mento innescano molteplici problemi al confine corpo-mente: insonnia, alterazio- ni immunitarie, patologie cardiache e alimentari e ovviamente ansia, depressione, dipendenze. Tanto che alcuni esperti stimano che il rischio di morte prematura può aumentare del 30%. Alcuni studi, allo stesso tempo, hanno dimostrato che la “sincronizzazione intercerebrale”, la capacità di due o più cervelli di ritrovarsi sulla stessa lunghezza d’onda e che questo influisce positivamente sullo stato di benessere e sulle capacità cognitive evidenziando inoltre che più sono gli individui che si sincronizzano più questi riferiscono di provare piacere e appagamento. Verrebbe da chiedere se sia faccia di più un’orgia rispetto alla monogamia, ma in realtà chiedo: questo vuol dire che ci fa stare meglio un concerto, un’esperienza fatta anche e forse soprattutto di condivisione, più che una visita da soli in un museo, o ciò che per definizione è l’emblema della cultura solitaria, ossia leggere un libro?

Martino Introna: Io rispondo rispetto all’esperienza che ho con i ragazzi. Il discorso si incrocia e si incrocerà sempre di più con l’intelligenza artificiale. La realtà virtuale con cui i ragazzi entrano in contatto crea delle comunità. Spesso i ragazzi vivono in comunità con altri che condividono lo stesso telefonino. Credo che questo vada considerato come un problema. Questo vivere sempre più in un’autosfera che sembra quasi ignorare la realtà esterna può avere degli aspetti anche positivi, ma in generale sono più preoccupato per gli aspetti negativi, e più indaghiamo questo aspetto e più sono preoccupato di questo allontanarsi dalla realtà. Se andate in metropolitana e guardate la percentuale di persone che ignorano il mondo che le circonda e sono concentrate sullo schermo del loro telefonino rimanete sconcertati. Reagisco anche male se immagino che i ragazzi possano confrontarsi attraverso un canale coreano su come si spremono i foruncoli.

Si può, invece, apprezzare che in questi meccanismi, in questi affari, ci sia una potenzialità straordinaria di ricavare elementi positivi. Pensavo all’intervento sul- le biblioteche, che abbiamo ignorato per tanto tempo. È chiaro che se io posso oggi in una frazione di secondo leggere un estratto di un libro o cogliere una figura o trovare un nesso, questa cosa ha un enorme valore. Ripenso anche al libro di Baricco “Games” e mi rendo conto che devo avere una preparazione, come dire, soggiacente, però, una volta che ce l’ho, il tempo in cui posso acquisire una conoscenza è straordinariamente breve; quindi, posso anche non aver più bisogno necessariamente di una biblioteca se ho una metodologia che mi consente di assorbire in fretta una conoscenza, e l’avrò sempre più rapidamente per altro. Allora dobbiamo trovare degli equilibri evidentemente. Non possiamo perdere, e lo diceva molto bene l’astrofisica, la nostra socialità e l’emotività. Tuttavia, dob- biamo ammettere ed accettare che esistano altre forme di interazioni più nuove delle quali non avevamo conoscenza fino a dieci anni fa e dobbiamo immaginarci questi futuri virtuali come parte della nostra conoscenza e della nostra interazio- ne. È una sfida complessa ma da cui non dobbiamo fuggire per paura.

Franco Broccardi: Nel libro di Ersilia Vaudo si legge, a un certo punto, che “la grandezza di Einstein è stata la sua singolare capacità di sviluppare una visione d’insieme delle teorie e degli esperimenti fisici di frontiera del suo tempo alla ricerca di una interpretazione più universale. Ci vogliono curiosità, determina- zione e una pazienza straordinaria per porsi domande nuove”. Einstein ha sviluppato la sua propensione al futuro partendo dal problema della sincronizzazione degli orologi sulle nascenti reti ferroviarie. Lo ha fatto in un ufficio brevetti e non frequentando musei o concerti. Schrödinger ha fatto ancora meglio: l’illuminazione per giungere alla sua equazione simbolo non l’ha avuta in un dipartimento universitario ma durante una fuga in uno chalet svizzero con la sua amante. In definitiva: è davvero la cultura ad alimentare la mente o è, invece, la curiosità? O ancor meglio la passione?

Ersilia Vaudo: Io penso che la curiosità nasca proprio nella prima fase nella vita. I bambini sono tutti esploratori e penso che il rapporto con la natura abbia un ruolo fondamentale di quella bellezza della natura che porta domande nuove, a voler an- dare dove non si è stati, a non aver paura delle domande stupide. Purtroppo, però uno dei problemi è che i bambini hanno sempre meno esperienza nel rapporto con la natura. Anche Einstein iniziò a porsi le proprie domande in età adolescenziale e addirittura diceva questa cosa che erano arrivate le equazioni di Maxwell sulla velo- cità della luca e la questione della velocità della luce quando era adolescente gli dava talmente emozioni che gli faceva sudare le mani. Chiaro che comunque il momento in cui lui si trovava nell’ufficio dei brevetti già carico di questa curiosità all’inizio di un secolo dove comunque c’erano trasformazioni straordinarie perché arrivano il telefono, l’elettricità, il cinema anche un fermento culturale nuovo cominciano nuove domande e la ricerca di soluzioni pratiche su come la velocità della luce potesse trasformare la nostra percezione del tempo viene proprio dal fatto che diventava necessario poter sincronizzare orologi lontani. Quindi nasce da una questione pratica ma fondamentalmente ma alimenta una curiosità che già c’era. Io penso innanzitutto è che tutta la straordinaria rivoluzione messa sul tavolo da Einstein grazie ai lavori dei matematici precedenti è stato tutto un lavoro di immaginazione. È stata l’immaginazione, non c’era nessun supporto tecnologico che ha permesso di scardinare completamente una visione del mondo newtoniana dove il tempo era assoluto e lo spazio assoluto. Arrivare a dire avere idee nuove non è solo una questione di capacità di pensare in modo diverso, è anche il coraggio di rischiare il consenso perché dire in quegli anni che il tempo cade con la gravità, il tempo sulla spiaggia scorre più lenta- mente che su una montagna non era una cosa semplice e non è semplice accettare le idee nuove. Lo stesso Einstein non accettava l’idea che l’universo potesse espandersi. Quindi scegliamo sempre tra convinzioni che ci confortano e la voglia di andare oltre e cambiare completamente questa prospettiva. Io penso che la scienza e il significato della cultura siano proprio questo e cioè l’emozione di passare dall’ignorare al conoscere quando per la prima volta qualcosa si presenta anche nella forma di un quadro, di un libro, di un’emozione avviene una trasformazione. Quindi si è curiosità ma non è solo curiosità, ci sono anche coraggio, insolenza, testardaggine. Questo inizio secolo fu straordinario se si pensa che nel 1900 un grande scienziato aveva detto “in fisica non c’è più nulla da aggiungere, si tratta di fare meglio solo qualche misura”. Nelle tre decadi successive è cambiato tutto.

Franco Broccardi: Leggevo su Corriere Salute di oggi: “Contano più i geni o l’ambiente?” La curiosità, la passione per l’arte sono qualche cosa di genetico, o è l’ambiente a trasformarci? Leggendo l’articolo mi è tornato subito in mente “Una poltrona per due”.

Alessandro Aiuti: In ogni attitudine c’è sempre una componente genetica ereditaria, familiare, dell’ambiente in cui si nasce. Io sono nato in un ambiente in cui mio padre era medico, studiava virus e malattie del sistema immunitario e sono finito a studiare le stesse cose e a curare i virus. Penso ci sia stata un’influenza, ma non è detto, perché mio fratello e mia sorella fanno cose completamente diverse. Tornando sul punto della ricerca, credo che la curiosità sia essenziale, il desiderio di andare al di là, della scoperta. È essenziale nel nostro lavoro quotidiano di ricercatori. Lo possiamo fare in diversi modi. Partendo da un’idea, da un concetto e cercando di dimostrarlo. Possiamo farlo dall’osservazione e questo è molto importante, soprattutto, per chi è medico ricercatore e ha un’osservazione perché vede un bambino, un paziente che ha le caratteristiche come anche una cellula e poi da lì parte l’idea. Oppure può avvenire tutto per caso, con serendipity, da una conversazione casuale con un collega, da tantissime cose che avvengono casualmente. Il bello della nostra scienza è che utilizziamo tante informazioni per poi arrivare con il metodo scientifico di cercare di dimostrare qualcosa. L’idea nasce da una persona geniale, qualcuno di brillante ma poi c’è sempre un lavoro di squadra, di gruppo. Oggi le nostre attività sono talmente specialistiche e complesse che per realizzarle abbiamo bisogno di tanta collaborazione. La collaborazione tra centri e competenze diverse è quella che fa anche il successo di molte ricerche. Per tornare al punto iniziale, noi studiamo tantissimo geni e sappiamo che ci sono delle malattie monogeniche in cui c’è un singolo gene che può essere responsabile di qualche cosa. Il nostro genoma è molto complesso, fortunatamente, perché rappresenta la nostra diversità e la nostra ricchezza. Diversità che si manifesta anche, ad esempio, tra fratelli, sorelle, anche gemelli: i gemelli nascono con un patrimonio genetico identico che può modificarsi nel tempo per cui i nostri geni possono mutare facendo la differenza. Ma certamente anche l’ambiente, quello scolastico, familiare, la natura e le influenze esterne possono condizionarci. La natura umana ha nella sua diversità e nella sua ricchezza questo ruolo di ereditare qualche cosa e portarlo avanti nelle generazioni successive ma anche di arricchirsi nel contatto con l’ambiente, nel bene e nel male perché talvolta l’ambiente ha influenze negative nell’evolvere, nel crescere. L’essere dinamico è qualcosa che è in noi e con cui interagiamo tutti i giorni

Andrea Biondi: In relazione a quanto detto il professor Aiuti e quanto sentito dalla collega astrofisica sulle tre decadi del Novecento, all’inizio degli anni 2000, è stato detto che accanto alla nostra parte nobile costituita dal 3% dei nostri geni che fanno proteine, il resto è stato definito “junk DNA” (DNA di scarto). È come se si fosse aperto un vaso di pandora perché di tutto quel 97% stiamo scoprendo che probabilmente è la parte più importante nella regolazione, nell’interazione tra genoma e ambiente. Sappiamo che i nostri geni sono modificabili non nella loro sequenza delle lettere ma nella loro regolazione. Mi permetto di dire come dopo un secolo ci si ritrova nella stessa condizione che l’astrofisica diceva a proposito della fisica all’inizio del Novecento.

Franco Broccardi: Qualche giorno fa Francesco Mannino, presidente di Officine Culturali, in un articolo ha scritto: “Quando si dà vita ad una attività culturale la- sciando invariate barriere economiche o culturali, sensoriali o sociali, è comunque probabile che si stia creando una comunità attorno a quella attività. È una comunità culturale, quella? Probabilmente sì, è fatta da persone che riconoscono i propri simili nella partecipazione di cui sono protagoniste. È escludente quella comunità? Probabilmente sì, perché nel riconoscersi in un pari livello intellettuale, o di categoria sociale, o di disponibilità economica, o di lingua parlata, si sta tracciando un perimetro che determina chi può e chi non può partecipare culturalmente. E questo nel mondo culturale è molto più diffuso di quanto si possa pensare: bisognerà prima o poi avere il coraggio di ammetterlo e archiviare definitivamente il termine “esclusivo” come distintivo di eventi culturali di qualità”. La cultura, lo sappiamo, è anche questo. O meglio lo è il mondo culturale. Come distinguere in tutto questo la strada giusta da percorrere? Come può esserci welfare dove non c’è inclusione?

Annalisa Cicerchia: Ciccio Mannino è una delle persone più brillanti e se non doveste conoscerlo, dovreste farlo, ma in questo caso sbaglia. Noi abbiamo ormai una trentina di anni di studi che hanno smontato il paradigma della barriera economica. Mi riferisco al nostro paese. La barriera principale è una barriera di tipo cognitivo. Ci sono molte esperienze culturali oggi, anche grazie alla dimensione digitale, che sono accessibili gratuitamente o, comunque, più economiche rispetto a come potevano essere 20, 40 anni fa. Il problema credo vada spostato da un’altra parte. La barriera è cognitiva. Io sono disposto a pagare per un una cosa che penso mi produca beneficio, di qualunque tipo. Anche semplicemente una risata, i capelli a posto, mi sento più rilassato. Anche una persona con un budget modesto è contenta di impiegare il proprio denaro. Pensiamo ai giovani che hanno una capacità velocissima di micro-spesa che viene indirizzata per esempio verso l’aperitivo che diventa una specie di unità di misura perché corrisponde ad un beneficio facile da percepire in termini di socialità, di vantaggi che sono evidenti. D’altra parte, Ciccio Mannino ha ultra ragione perché se non si abbatte quella barriera e quella barriera esiste anche perché noi abbiamo un modo di comunicare alcune potenziali esperienze culturali che non riescono a passare dall’altra parte. Quello che non viene reso evidente, perché questa circo- larità si è andata rompendo da tanti anni, è il fatto che ci sia un vantaggio. C’è un paradosso nel comportamento: molte persone che non si sognerebbero mai di frequentare un museo a casa propria quando vanno a fare i turisti all’estero invece non mancano di visitare un museo. È un vantaggio che in altro ambiente è considerato evidente come una cosa da fare assolutamente. Dall’altra parte mi vengono in mente alcuni esempi che trovo drammatici. A Roma la GNAM o il Palazzo delle esposizioni sono due templi greci. Sono alla sommità di una sca- linata e sono la cosa più respingente e ieratica che posso immaginare, per cui a un ragazzo che vive due quartieri più in là non viene proprio in mente che lì lo vogliano, o che lì potrà trovare qualcosa di interessante. La GNAM sta facendo un lavoro su sé stessa portando ad esempio il museo nel carcere minorile di Casal del Marmo. Un’attività con cui cerca di stabilire ponti: non ponti indigeribili, per cui io arrivo con tutta la mia sacralità e se non mi capisci peggio per te, ma al contrario l’idea che io dentro al museo ho qualcosa che per te sarà un vantaggio. Secondo esempio. Non vengo da una famiglia particolarmente facoltosa, ma dall’età di 11 anni mio padre mi ha abituata ad andare a teatro tutte le settimane. Per me l’odore del teatro è una cosa per cui non mi devo chiedere se mi porterà beneficio o no. Provate a leggere i siti dei circuiti teatrali delle nostre città. Guardateli con onestà. La proposta culturale mediamente ti fa sentire un deficiente, perché se non sei un critico teatrale la sintesi che viene proposta degli spettacoli in cartellone è una cosa che ti fa credere un mentecatto. E così vai a farti un ape- ritivo. Io lavorerei su questo. Sono talmente convinta che dentro ai luoghi della cultura e nei soggetti che fanno cultura ci sia un enorme potenziale per il benes- sere del paese. Ricordiamo che non solo dei giovani sono soli con i loro cellulari, ma anche che un anziano su cinque dopo i 75 anni vive da solo come un cane. Una solitudine non digitale e disperata. Questa potenzialità va vista dal lato delle organizzazioni culturali come avere un enorme deposito di penicillina. Bisogna riuscire a sintetizzarla e portarla dove ce n’è bisogno.

Franco Broccardi: Sul tema della consapevolezza Esther Duflo ci ha vinto un Nobel per l’economia parlando di vaccini. Noi possiamo portare tutti i vaccini che vogliamo in africa e distribuirli gratuitamente ma se non convinceremo le mamme africane della necessità di vaccinare i loro figli, se non ne saranno con- sapevoli, sarà tutto inutile. Per concludere, però, manca una domanda a cui abbiamo girato intorno tutto questo tempo: a che cosa fa ben la cultura?

Enzo Grossi: La prima cosa è che fa bene al nostro stato emotivo, ci rende felici. Aumenta il nostro benessere psicologico percepito. Succede questo: la gente

felice vive più a lungo. Questo è stato dimostrato da un grande ricercatore Ed Diener, detto “Doctor Happiness”, che aveva condotto molti studi dal punto di vista del benessere psicologico e neurobiologico e aveva raccolto centinaia di migliaia di dati che dimostravano che mediamente le persone che hanno un be- nessere psicologico maggiore vivono da 4 a 10 anni più a lungo. Perché? Perché questi meccanismi vengono messi in gioco per contrastare questo silent killer che è lo stress. Lo stress ci fa accumulare delle cellule cosiddette senescenti che rimangono in circolo a lungo e che sono quelle che provano infiammazione spes- so subclinica che non riusciamo a quantificare, ci predispone ai tumori perché siamo immunodepressi, causa un accorciamento dei telomeri che sono enzimi che impediscono che la cellula a un certo punto smetta di duplicarsi il che ha a che fare con la longevità. Da un aspetto che sembra solo un aspetto mentale e psicologico in realtà abbiamo un risultato fisico. Ciò che la medicina ignora è che il cervello domina il corpo. Il sistema immunitario è influenzato direttamente dal cervello. L’unità mente-corpo per tempo è stata ritenuta separata con una divaricazione tra psicologia e medicina, scienze e arte mentre ora si sta cercando di ricucire il danno che si è fatto perché abbiamo bisogno di riacquistare quella parte che invece era la ragion d’essere della medicina. Esisteva solo l’arte ai tempi di Ippocrate per intervenire sulle malattie, non c’era altro. Faticosamente stiamo cercando di riportare questo anche a chi dovrebbe prendere le decisioni per cambiare il curriculum medico. Io dico sempre che, purtroppo, le università continuano a impostare il curriculum con un modello biomedico e non con un modello biopsicosociale che è quello per cui mente e corpo sono uniti.


Hanno partecipato all’incontro:

Alessandro Aiuti

Nato a Roma si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università La Sapienza di Roma nel 1990. Dal 1994 al 1996 ha lavorato come post-doctoral fellow al Centre for Blood Research dell’Harvard Medi- cal School di Boston, negli Usa, svolgendo ricerche sulle cellule staminali ematopoietiche. Nel 1996 ha conseguito il dottorato di ricerca in Biologia umana all’Università La Sapienza di Roma, e nel 1998 si è specializzato in Ematologia all’Università degli Studi di Milano. E’ Vice Direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget), Coordinatore della Ricerca Clinica, Responsabile dell’unità di ricerca dedicata allo studio delle malattie ereditarie del sistema immunitario. Ricopre inoltre la carica di Direttore dell’U.O. di Immunoematologia Pediatrica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, di Professore ordinario di Pediatria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed è Direttore della Scuola di Specializzazione in Pediatria della stessa Università. Alessandro Aiuti ha svolto attività di ricerca e clinica nel campo dell’ematologia e dell’immunologia pediatrica, studiando la biologia delle cellule staminali ematopoietiche ed il loro impiego terapeutico. Le sue ricerche attuali si focalizzano sulla terapia genica per alcune malattie genetiche rare del sistema immunitario, del sangue ed alcune malattie da accumulo con coinvolgimento del sistema nervoso e dell’osso.

Andrea Biondi

Direttore Scientifico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza, Professore Ordinario di Pediatria e Direttore della Clinica Pediatrica e della Scuola di Specializzazione di Pediatria, Università degli Studi di Milano-Bicocca. È direttore del Centro di Ricerca M. Tettamanti e del Laboratorio di Tera- pia Cellulare e Genica “Stefano Verri”. È stato ricercatore associato del Dana Farber Cancer Institute presso l’Harvard Medical School di Boston e dell’Ontario Cancer Institute di Toronto. Dal 2004 al 2008 è stato presidente di SIOP Europe, dal 2012 al 2015 presidente dell’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP), dal 2016 al 2022 presidente dell’International BFM Study Group (I-BFM-SG). È membro di diverse associazioni scientifiche e attivamente coinvolto nei programmi di revisione e raccolta fondi di organizzazioni e agenzie internazionali. Al momento la sua attività di ricerca si concentra sulla genetica molecolare della leucemia in età pediatrica e su immuno- terapia e terapia tramite CAR-T applicate alla leucemia.

Franco Broccardi

Esperto in economia della cultura, arts management e gestione e organizzazione aziendale, è consulente e revisore di musei, teatri, gallerie d’arte, fondazioni, festival e associazioni culturali. Si occupa di consulenza e formazione per fondazioni bancarie, istituzioni pubbliche e private in materia in materia di terzo settore, gestione e organizzazione di istituzioni culturali e di mercato dell’arte. Co-fondatore e partner dello studio Lombard DCA e BBS-Lombard srl di Milano e fondatore e curatore della rivista ÆS Arts+Economics. Tra le altre cariche è membro della commissione Economia della Cultura presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, coordinatore della commissione di Economia della Cultura presso la Fondazione di ricerca dei Commercialisti, consulente per le politiche economiche di Federculture, membro della commissione tecnica a supporto del consiglio direttivo di ICOM Italia-International Council of Museums oltre che del suo Gruppo di Lavoro Bilancio Sociale, consulente di ADEI-Associazione Degli Editori Indipendenti oltre che di Assobenefit per le tematiche fiscali relative alle società̀ benefit.

Annalisa Cicerchia

Economista della cultura con una vasta esperienza di ricerca sul campo, tra i suoi temi di studio, fin dai primi anni Ottanta, ci sono la pianificazione, l’analisi di impatto delle politiche e degli interventi sulla cultura e per la cultura. Dal 1990 si occupa di pianificazione e valutazione strategica per il settore culturale, concentrandosi sulle evidenze e gli strumenti di analisi qualitativa e quantitativa necessari per sostenere le decisioni e accompagnarne l’attuazione. Dopo aver lavorato presso l’Istituto di Studi per la Programmazione Economica e l’Istituto di Studi e Analisi Economica, dal 2011 è ricer- catrice senior presso l’Istituto Nazionale di Statistica. È membro del Comitato Editoriale della rivista Economia della Cultura, dell’Expert Group on Culture Statistics di EUROSTAT e vicepresidente del Cultural Welfare Center. Dal 1999 è titolare di corsi presso l’Università di Roma Tor Vergata; insegna e fa parte di gruppi di ricerca presso l’Università di Roma Tre e la Scuola Nazionale dell’Amministra- zione. Ha al suo attivo numerosi libri e articoli sulla partecipazione e la pratica culturale, l’economia e la gestione delle organizzazioni culturali, il contributo della cultura allo sviluppo sostenibile e il rapporto tra benessere, salute e pratica culturale e artistica.

Enzo Grossi

Medico Chirurgo, gastroenterologo, ricercatore, docente in ambito universitario, manager di ricerca e sviluppo. È stato direttore medico in varie Compagnie Farmaceutiche, tra cui Bracco S.p.A., dove ha operato per molti anni come Direttore Medico di Bracco Farma e Bracco Imaging. Dal 2012 è il Direttore Scientifico della Fondazione “Villa Santa Maria” di Tavernerio (Como) e dell’omonimo Isti- tuto di neuropsichiatria infantile, che ospita oltre 200 bambini e adolescenti affetti da patologie neu- ropsichiatriche. Dal 2016 è Advisor Scientifico di Fondazione Bracco, Milano. Negli ultimi 15 anni ha lavorato intensamente nel campo dell’arte, della cultura e della salute con numerose pubblicazioni scientifiche, seminari e corsi universitari tenuti allo IULM di Milano, a UniBO e UniTO. Di rilievo a questo riguardo la pubblicazione del Volume “Cultura e salute” con Springer. È socio fondatore del Cultural Welfare Center di Torino. Dal 2021 coordina un corso su “Cultura e salute” all’interno della Facoltà di Biomedicina dell’Università della Svizzera Italiana. Autore di oltre 500 pubblicazioni indicizzate su Google Scholar, tra cui oltre 200 full papers indicizzati su PubMed. I suoi articoli scientifici hanno avuto oltre 12.000 citazioni da parte di altri ricercatori. Il suo indice H è 60.

Martino Introna

Nato a Bari nel 1955, laureato in Medicina, ha sempre lavorato come ricercatore in molte istituzioni, a partire dall’Istituto Farmacologico Mario Negri in Milano, poi come post doc alla Duke University in North Carolina, quindi presso l’European Molecular Biology in Heidelberg, e successivamente come capo laboratorio presso il Mario Negri di Milano. Dal 2003 dirige il centro di Terapia Cellulare e Ge- nica presso la Ematologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Si è sempre occupato di im- munologia antitumorale e di terapia genica. I suoi interessi scientifici sono molto “allargati” oltre allo specifico su cui opera, e spaziano dalla Biologia Evolutiva ad aspetti di Fisica Teorica. Si occupa con grande frequenza di organizzare eventi scientifici ad ampio “spettro” a beneficio dei giovani studenti della provincia di Bergamo. Dipinge ad olio, suona la chitarra acustica e canta, e cerca di non essere riduttivista nelle sue frequenti escursioni letterarie. Ha due figli di 33 e 31 anni e vive a Bergamo.

Ersilia Vaudo

Laureata in Astrofisica, dal 1991 lavora all’Agenzia Spaziale Europea, dove è attualmente ESA Senior Advisor on Strategic Evolution e Chief Diversity Officer. Durante la sua carriera ha ricoperto vari ruoli, ed è stata Deputy Head of ESA Washington DC (USA) incaricata delle relazioni con la NASA. Nel 2022, è stata la Curatrice della XXIII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano sul tema “Unknown Unknowns. An introduction to mysteries”. Ersilia Vaudo è Presidente e co-fondatrice dell’Associazione “Il Cielo itinerante”, per promuovere l’alfabetizzazione STEM portando “il cielo dove non arriva”, con un telescopio sopra un pulmino e campi STEM, tra bambini e bambine in zone di disagio e povertà educativa. Nel 2022 le è stata conferita l’onorificenza Commendatore dell’Ordine della “Stella d’Italia” dal presidente della Repubblica italiana. Nel 2023 ha pubblicato con Einaudi “Mirabilis. Cinque intuizioni (più altre in arrivo) che hanno rivoluzionato la nostra idea di Universo.”