di Gisella Borioli

Mai come oggi ci sono stati tanti stilisti, tanti direttori creativi, tanti stylist, tanti siti fashion, tanti Instagram, tanti influencer, tanti expert, tanti libri, tanti negozi, tanti e-shop e tante immagini di presunte mode che ci tartassano ad ogni clic, volenti o nolenti.
Abiti, abiti e abiti. Striminziti e oversize, meravigliosi e orrendi, banali e incredibili, portabili e impossibili. Ovunque. Persino le Olimpiadi di Parigi hanno aperto i giochi non festeggiando i protagonisti con una parata degli atleti in con- corso ma con l’incursione nel mondo dei giovani organizzando una sfilata-show di moda (?) fatta di pezzi assurdi e ingestibili creati da precari stilisti pescati chissà dove e chissà da chi che volendo inneggiare al futuro facevano rimpiangere ai più il passato.
Possiamo dare anche i concerti rock il merito di creare le mode più facilmente riproducibili, che passano per le nudità, le contaminazioni, le ibridazioni di genere, i tatuaggi e via dicendo, e di questi i nostri fascinosi Maneskin sono i maestri assoluti.
C’è persino chi della moda è stato un protagonista osannato, che per raccontarne la fine ha messo in scena uno spettacolo fantasmagorico che percorrendo le tappe della sua vita di invenzioni e di successi, ci porta alla sua decisione di uscirne per- ché non c’è più posto per la creatività. Parlo di un grandissimo come Jean Paul Gaultier che ha prodotto “Fashion Freak Show”, un mix tra musica danza teatro e performance degno di Broadway, la cui scena finale riempie lo spazio con tutti i performer, ma anche tecnici e assistenti, vestiti solo della loro nudità più o meno tatuata. O meglio con un effetto ottico assolutamente realistico tutti indossavano leggeri body di rete color pelle stampati con i disegni più tipici dei tattoo. Uno skin-wear che indicava come l’abito stia diventando superfluo e la propria imma- gine ognuno se la costruirà da sé. Un vero e proprio De Profundis della moda.
Nel mentre noi umani siamo ogni attimo invasi da una quantità infinita di vestiti, accessori, borse, scarpe, gioielli, look, consigli che vanno ognuno per la sua strada senza dimenticare che le donne (e gli uomini) hanno imparato da tempo a vestirsi seguendo il proprio istinto, attingendo all’alta moda come al vintage, al cheap-chic da pochi soldi come alla borsa firmata che costa uno stipendio medio, a tirar fuori il vecchio blazer dall’armadio compiacendosi della taglia immutata e del fatto che uno simile sia in copertina della rivista patinata di riferimento. Se vai on-line in un attimo puoi essere proprietaria dell’ultimo Prada o di un elegantissimo Armani ma anche di uno Shein, il brand di questo incredibile sito cinese low-low-cost che offre abiti e accessori, e anche altre cose, a prezzi assurdi che fanno supporre chissà quali retroscena e invece magari anche no.

Dove sono finiti i leggendari fotografi che creavano immagini magiche con stra- tosferiche modelle e ti educavano alla bellezza facendoti nello stesso tempo so- gnare che avresti potuto avvicinarti, almeno un poco, a quella divina vestita da dea che ti stregava da quella pagina?
Dove è finito quel mitico Vogue italiano creato per Condé Nast nel 1964 dall’art director più famoso, il visionario Flavio Lucchini, che per decenni avrebbe domi- nato la scena editoriale e diffuso con le sue riviste condenastiane e quelle che sa- rebbero venute dopo, la bellezza unita allo stile alla cultura e all’impegno? Donna - ad esempio - nata nell'80 ma attuale ancora oggi, l’altra faccia dell’eleganza rispetto a Vogue, è stata un esempio lampante dell’evoluzione estetica di moda e design e dello sviluppo della creatività italiana che ci ha reso protagonisti nel mondo.
Dopo il Vogue di Lucchini, il Vogue di Franca Sozzani ha toccato tutti i temi, anche estremi, della vita contemporanea, proponendo nuovi canoni di bellezza, vicini all’arte d’avanguardia, influenzando le riviste competitor nate al seguito. Che oggi, smarrite, navigano senza meta proponendo mode e modelli che nulla hanno a vedere con la realtà, e restano puri esercizi metafisici, i cui abiti nessuna donna potrebbe davvero indossare. La realtà percorre strade opposte, basta guardarsi attorno.

Gli stilisti siamo noi

Fiondarsi sul sito Shein fa capire tante cose su questi nostri anni dell’apparire che hanno visto sparire la moda, quella vera, quella bella, quella di ricerca, quella “colta”, quella che andava di pari passo con i cambiamenti della società espressi senza tante parole.
Oggi le sfilate sono “masquerade” spettacolari, che lasciano sfogare la fantasia del creativo di turno in direzioni sempre diverse, buone per moltiplicare la comuni- cazione immateriale di cui ciascuno di noi è divulgatore in una catena infinita. Non ci sono più tendenze, non ci sono più proposte che propongono le linee i colori le lunghezze dell’anno, quasi un comune denominatore delle passerelle come una volta, non ci sono più Maestri che indicano la via, nei quali riconoscersi, idolatrati come meritano, salvo Armani e rarissime eccezioni. Tutti scomparsi, o rifugiati a godersi quel che resta della vita in esili dorati dopo aver tutto venduto ai perigliosi fondi.
I vari direttori creativi che ne hanno preso il posto e che oggi saltellano da un brand all’altro sfogliando, sconvolgendo e a volte negando archivi preziosissimi, non fanno che aumentare il rimpianto del bel tempo che fu. Che, se vogliamo dare una data, ha cominciato a dissolversi col cambio di secolo, in una silenziosa rivoluzione dello stile che ha portato sì libertà di vestirsi come si vuole anche grazie all’arrivo della fast-fashion ma anche progressivamente eliminato ogni limite alla decenza e al buon gusto.
La Shein del misterioso magnate Xu Yangtian, dal nome variabile anche come Chris Xu o Sky Xu e che non si mostra mai, e i suoi competitor (Temu, Ali- baba...) hanno aperto un nuovo immenso mercato immateriale, con proposte di ogni genere, certamente carine e accattivanti, forse copiate e rivisitate dalle sfilate, ma anche inventate da giovani designer senza nome e senza patria. Al confronto e in proporzione i capi e gli accessori del tutto accessibili di Zara e H&M e competitor si posizionano come un lusso. Infatti, ora sono loro a coinvolgere gli stilisti affermati: vedi Gap con Zac Posen, Inditex con Stefano Pilati, Mango con Victoria Beckham, Uniqlo con Waight Keller, la fashion-designer che ha realizzato l’abito di Megan Markle per il matrimonio con il Principe Harry.

La moda low sempre più up

I brand cinesi del mercato globale e virtuale sanno dunque come ammaliare, complici foto semplici e “normali”, anche le signore schizzinose con i loro prezzi tentatori, 7,99 € per un seducente costume intero, 13,50 € per una giacca pas- se-partout, un cappotto trendy 28,50 €, 25,00 € per un fascinoso abito da sera, e che importa se lo usi una volta e poi lo butti via intasando le discariche proibite del mondo?
È proprio di questi giorni la notizia che le accurate analisi sui componenti dei tessuti di queste tentazioni irresistibili contengono elementi potenzialmente pe- ricolosi per la salute, oltre al sospetto di sfruttamento di ragazzini al lavoro oltre alle ore consentite.
Dubito che l’osservatorio sulla regolarità delle produzioni modifichi il metodo delle aziende incriminate così come la supposizione che non sia tutto regolare diminuisca il desiderio di portarsi a casa un abito scenografico al prezzo di una serata al cinema. Al contrario credo che più la soi-disant “ipermoda” delle passerelle moltiplicata dalle pubblicità, esaltata dalle celebrity di ogni rango, indossata dalle influencer anche se forse in procinto di estinzione, si allontana dalla realtà, tanto più sare- mo invasi da vestiti di ogni tipo, prezzo, stile, tanti vestiti alla fine tutti uguali, senza tempo senza storia senza creatività, che ciascuno si divertirà a mescolare per creare il proprio “look”, bello o brutto che sia, tanto nessuno è più in grado di giudicare. Gli “stilisti” alla fine, saremo noi.

Valentino, fotografie di Giovanni Gastel dal libro GASTEL per DONNA, Edimoda (1991)

Lo stile unico dei grandi Maestri di ieri

Mi piace ricordare qui l’accurata perfezione degli abiti di Valentino quando era ancora il Garavani. Ogni donna si sentiva dea perché erano studiati per esaltare la bellezza di invidiabili personalità.
Mi tornano in mente, per contrasto, le maschiette e le donne in carriera di Giorgio Armani, fluide e leggere nei loro tessuti senza peso, nelle giacche smidollate, negli abiti da sera delicati che le impreziosivano senza esagerare. E lo fanno ancora. Contrastavano l’opulenza ba-rock degli anni Versace, quando il mitico Gianni dava sfogo alla sua creatività portandoci in un mondo fantastico in cui entrava la storia, la mitologia, l’arte, lo show unite alla seduzione impersonata dalle sue supermodel. Naomi in testa.
Vivevamo una specie di derby, ogni fashion week. Il rigore di Giorgio e gli eccessi di Gianni attizzavano tra gli addetti delle due “squadre” discussioni feroci, ma piene di ammirazione.
Un capitolo a parte lo scriveva ogni volta l’architetto Gianfranco Ferrè, con le sue composizioni tessili che nascevano come architetture per il corpo ma regalavano una eleganza mai vista grazie alle linee audaci, ai tessuti modellati in mille modi, alle inimitabili camicie bianche.
Poi c’era Krizia, dove Mariuccia Mandelli immetteva con ironia citazioni femministe, un bestiario elegante, allusioni artistiche, provocazioni inattese, proponendo la moda più femminilmente intrigante del magico periodo della moda italiana, 1980-90.
Giocavano con i colori, con le trame, con gli intrecci, con i contrasti dei filati i Missoni, coppia iconica di una moda unica che potevano fare solo loro, inarriva- bili e copiatissimi maestri della maglieria d’autore e inventori di quel mix-and- match che spopolò in America prima di diventare un must internazionale. E, si sa, “nemo propheta in patria sua”.
Quando arrivano Dolce&Gabbana e Romeo Gigli, con le loro visioni così diverse e contrastanti, le carte si rimescolano aggiungendo nuove suggestioni. L’italianità più iconica procace e tradizionale diventa il manifesto dei primi, le citazioni sto- riche che rimandano alle madonne bizantine dai corpi sottili e le spalle spioventi parlano per il secondo. Entrambi arricchiscono e influenzano il panorama do- minante di donne forti e spavalde. Franco Moschino, dei cui ricorrono proprio quest’anno i trent’anni dalla morte, nel suo breve ma incisivo percorso la moda la irride, ma lo fa con grande consapevolezza del suo valore e del classico. Prende i pezzi stabili del guardaroba e li sconvolge nell’uso e nel modo immettendovi il gioco la contestazione e la sorpresa delle sue presentazioni fuori dall’ordinario. Forse per primo fa capire che l’eleganza è un fatto personale, che lo stile è più forte della moda.
Con le prime sfilate a Parigi dei rivoluzionari giapponesi Rei Kavakubo e Yoshi Yamamoto, e i loro abiti senza forme, senza riferimenti, senza taglia, senza colore, senza regole, senza sesso, con gli esperimenti tessili e gli essenziali Please Pleats di Issey Miyake, la moda degli anni 90 entra nel minimalismo evoluto e si avvicina alla fine del millennio. E all’inizio del caos o meglio, della libertà totale di vestirsi come si vuole.

La Moda si sublima nell’arte

Per quanto la moda sia effimera, i Miti restano nella storia. Flavio Lucchini, con le sue antenne sensibili lo intuisce prima di tutti e al giro di boa, nel 1990, lascia la moda reale e si dedica all’arte dove la moda esce dal vissuto e diventa immorta- le. Lo fa per poter comunicare ancor meglio la bellezza di quegli abiti che ha ac- compagnato sulle sue pagine per più di trent’anni rendendone famosi i creatori. Lo fa per regalare una sorta di eternità a tutta la creatività dei grandi stilisti, veri e propri artisti a modo loro. Lo fa creando opere monumentali che immagina in piazze di città, ma anche piccole tavole dorate come icone di una chiesa per esal- tare il senso religioso della moda. Lo fa con figure stilizzate in acciaio corten che si ispirano agli idoli africani, con bambole pop alla maniera dei manga giappo- nesi, con raffinati bassorilievi di resina bianca che riproducono dettagli di moda come reperti archeologici. Lo fa con i tanti dipinti che indagano il rapporto della donna con la moda e la diversità, con i disegni trasformati in quadri digitali di donne senza volto dove bastano i capelli per far intuire chi sono.
Il percorso nelle 18 stanze tematiche del FLA è un diario di vita del maestro Luc- chini e un viaggio culturale tra opere dell’ingegno che invitano alla riflessione e aprono agli interrogativi. Uno spazio unico di recente apertura da cui non si può non uscire colpiti e entusiasti.
Per chi si domanda se la moda è (era) arte, se l’arte può fondersi con la moda, la risposta è qui. Se la moda è morta, la Moda, quella vera, quella con la M maiu- scola sbocciata negli anni di pace, di boom economico, di nuove tecnologie, di preparazione al nuovo mondo, di visioni positive, vive ancora, qui. Per non essere dimenticata, per essere scoperta. In attesa che qualcuno, forse, prossimamente la resusciti.
Lucchini anche negli anni dell’arte continua a seguire le sfilate, a informarsi, a cercare di trovare il nesso tra l’abito femminile e i cambiamenti sociali. Modella gesso, creta, legno, acciaio, vetroresina e materiali sperimentali pensando ai gio- vani Maestri che ha aiutato a crescere e a diventare grandi.
Si ispira ai loro abiti, a volte rubandone l’anima, a volte creando un suo personale sogno, a volte allontanandosene e andando lontano, nelle viscere di una cultura diversa e della donna negata. I suoi burqa trovano tracce di femminilità anche nello scenario più austero e anacronistico e invitano a riflettere sul ruolo del ve- stito, che parla senza parole.
Flavio Lucchini nei recenti trent’anni della sua seconda vita ha rivissuto la moda più bella creando, tra quadri, bassorilievi, sculture, maquette, disegni, digital painting, scritti, un immenso archivio di più di mille opere, molte delle quali in mostra permanente nel suo ex-atelier e negli spazi contigui che costituiscono il FLA, il suo personale FlavioLucchiniArt Museum.
Una visita al FLA è un percorso nella storia della moda e dell’arte contemporanee con la scoperta, attraverso le opere, di abiti del secondo millennio che ormai non esistono più. Non a caso il FLA Museum è collocato al Superstudio di via Tortona a Milano, là dove ogni giorno si disegna il futuro aprendo a tutte le forme di creatività e innovazione.


Milanese, giornalista, imprenditrice e art-director, nota protagonista dell’universo culturale della città. Giovanissima, è già in redazione alla nascita de “L’Ottagono”, rivista di architettura e di design, poi passa in Condé Nast chiamata da Flavio Lucchini con cui farà coppia nella vita e nel lavoro. Direttore responsabile di numerose testate, autrice di libri di immagine e di costume, di programmi televisivi, di progetti artistici e visuali, ha sempre unito la moda al design e all’arte, con una visione a 360° della creatività contemporanea. Dirige il Gruppo Superstudio sin dagli anni ’90. Ha aperto la strada al Fuorisalone diffuso nel district di Milano in zona Tortona, a partire dalle due sedi di Superstudio di allora. Dando così il via alla trasformazione di un’area post-industriale in un cuore creativo della città. Nel 2005 ha aperto la concept- gallery MyOwnGallery per ospitare artisti non convenzionali, nuovi linguaggi dell’arte, giovani talenti, creatività femminile. Nel 2021 ha inaugurato FLA FlavioLucchiniArt Museum, sempre al Superstudio Più, 2.000 mq dedicati all’imponente archivio di opere realizzate da Flavio Lucchini negli ultimi 35 anni. Considerata un influente personaggio della cultura milanese, è anche stata inserita tra le protagoniste della mostra “W. Women in Italian Design” alla Triennale di Milano nel 2016. Oltre a numerosi premi in Italia e all’estero ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro della Città di Milano nel 2014. Vive tra Milano, Parigi, la Corsica e Dubai.

Gisella Borioli @ambraalessiph