Carla Morogallo

 Il settore culturale rappresenta uno degli ambiti più emblematici e strategici per l’identità e lo sviluppo dell’Italia. Le imprese creative culturali sono attività che si fondano sulla creatività, sul talento individuale, sul patrimonio culturale e svolgono un ruolo produttivo con lo scopo di creare valore culturale e sostenibilità economica. I settori disciplinari sono diversi: architettura, fotografia, design, moda, danza, musica, audiovisivo, teatro, editoria, media, gamification e tanto altro. Molti di questi settori poi si ibridano tra loro, soprattutto grazie alle tecnologie digitali, come ad esempio il ricorso agli NFT, o il costume ormai in voga da parte di brand di moda di produrre contenuti editoriali a supporto della propria identità.

Negli ultimi decenni, l’interesse verso le imprese e le attività culturali è aumentato, affiancando alla dimensione caratteristica (musei, archivi, teatri, biblioteche) una vasta rete di soggetti privati, del terzo settore e creativi, che operano a vario titolo nella produzione, valorizzazione e diffusione della cultura. In Italia le attività culturali, nel senso più vasto del termine, si intrecciano spesso con il turismo, la formazione e le politiche sociali, contribuendo a definire un ecosistema culturale ricco ma anche complesso, soprattutto rispetto alla sua natura e alla forma giuridica di appartenenza. Le fondazioni, le associazioni, le cooperative, le case di produzione, i musei, le collezioni, le gallerie sono o possono essere imprese culturali creative?

Un passaggio chiave nel riconoscimento delle attività culturali come impresa si è avuto con il progressivo consolidamento del concetto di impresa culturale e creativa (ICC). Secondo la definizione europea (Agenda europea per la cultura, 2007), le ICC sono quelle attività che “usano il capitale culturale come materia prima e il capitale creativo come risorsa di sviluppo economico e sociale”.

In Italia, Federculture ha svolto un ruolo di primo piano nel promuovere il riconoscimento delle imprese creative che ha portato alla legge quadro sul Made in Italy (legge 27 dicembre 2023). Da qui discende la creazione dell’albo delle imprese creative di interesse nazionale riservato a realtà che hanno cinque anni di attività e che sono dotate di archivio documentale. Ma ancora oggi, nonostante questi iniziali sforzi, le imprese culturali e creative assumono una pluralità di forme giuridiche, che riflettono la natura ibrida del settore (tra impresa profit e istituzione no profit, tra pubblico e privato). Istituti culturali, spesso non a scopo di lucro; fondazioni con finalità culturali e patrimonio vincolato; cooperative culturali o ancora SRL o SRLS come strumento operativo di istituzioni e musei. Queste realtà possono accedere a forme di agevolazioni fiscali e strumenti di finanza pubblica dedicati, come il credito d’imposta per le imprese culturali, l’Art Bonus (per chi sostiene la cultura) e fondi strutturali europei. In uno scenario così eterogeno non è semplice distinguere fra quelle realtà che potenzialmente possono sostenere una programmazione a lungo termine, e quindi dotate di risorse e struttura adeguata allo sviluppo e non solo alle attività temporanee, e quelle che invece nascono per un progetto contestuale e vivono solo nel breve termine. Si tende infatti a considerare impresa culturale creativa ciò che ha ambizione culturale in termini di contenuto ma senza considerare che lo sviluppo di contenuto deve essere sostenuto da una cornice gestionale e amministrativa adeguata, che consenta una crescita paritetica sia in termini culturali che in termini economici. Diversamente le imprese culturali creative saranno soggette a una forma di “assistenzialismo” economico nella ricerca costante di sostegno per garantire continuità alla propria strategia culturale, lavorando sempre solo sull’oggi per garantire la sopravvivenza. La trasformazione profonda che oggi vive questo settore è caratterizzata da una dimensione sospesa tra fragilità strutturali e grandi opportunità di rilancio. Le imprese culturali creative devono bilanciare due esigenze: la libertà creativa e la sostenibilità economica, e per farlo seguono

alcune direttrici. Il modello economico forse più diffuso è quello dello sviluppo di contenuti su commissione, modello che non garantisce fino in fondo la libertà curatoriale. Ciò non dipende dalla natura del committente. Se pensiamo ai bandi pubblici possiamo capire facilmente quanto siano impattanti sulla scelta del contenuto. Lo sono allo scopo di finanziare un progetto che corrisponda esattamente a una determinata politica culturale; la regia in questi casi è indiscutibilmente nelle mani di chi gestisce le risorse.

L’Italia possiede un patrimonio culturale unico al mondo, ma le imprese culturali italiane operano in un sistema ancora fragile, frammentato e burocraticamente complesso. A differenza di altri paesi europei, dove il settore culturale è stabilmente riconosciuto come motore economico e strategico, in Italia le ICC faticano ad affermarsi come soggetti economici a pieno titolo. La consapevolezza crescente del loro valore strategico, unita alla spinta innovativa emersa negli ultimi anni, apre la strada a opportunità che richiedono visione, investimenti e politiche coordinate.

In questo scenario si affaccia anche l’arrivo di nuovi strumenti come il digitale e l’IA, ma molte istituzioni culturali restano ancora poco strutturate sul piano tecnologico. La tecnologia ha rivoluzionato molte imprese creative che hanno dovuto trasformare i processi creativi, i modelli di produzione e di distribuzione e le modalità del rapporto con il pubblico. A volte la tecnologia viene usata come strumento, altre volte come leva di innovazione per creare nuovi linguaggi. Anche in questo ambito lo scenario è a macchia di leopardo.

Per cogliere pienamente queste opportunità, occorre attivare strategie integrate su più livelli: investire nella formazione (rafforzare le competenze manageriali, digitali e interdisciplinari degli operatori culturali attraverso percorsi formativi mirati e continui, sia accademici che professionali); favorire reti e partenariati (le ICC possono trarre grande vantaggio dalla cooperazione tra enti pubblici, imprese, università e cittadini, valorizzando il lavoro di rete e le piattaforme collaborative); promuovere l’innovazione sociale (le pratiche culturali possono generare benessere diffuso se inserite in contesti di partecipazione civica, rigenerazione urbana e sviluppo locale); semplificare l’accesso a risorse e incentivi ma anche rendere più consapevoli e competenti in termini gestionali gli operatori culturali che si accingono ad avviare una impresa culturale e creativa.

Idealmente, bisognerebbe superare la visione emergenziale della cultura per inserirla stabilmente nelle politiche di sviluppo sostenibile. Il settore culturale non è un ambito residuale ma un motore di innovazione, inclusione e competitività. Riconoscerne il valore strategico significa investire nel capitale umano, nella creatività e nella qualità della vita delle persone e dei territori.

Il sistema culturale italiano è ricco di risorse, competenze e potenzialità, ma richiede oggi una nuova fase di consolidamento e rilancio. Una maggiore integrazione tra cultura, innovazione e sviluppo sostenibile può rappresentare la chiave per trasformare fragilità in opportunità e rendere le imprese culturali e creative davvero parte attiva dello sviluppo.

In Francia, la cultura è da decenni considerata una priorità nazionale. Il Ministero della Cultura dispone di risorse stabili (oltre l’1% del bilancio dello Stato) e promuove attivamente le ICC. Nel Regno Unito, le ICC sono riconosciute come “Creative Industries”, un comparto economico con un impatto rilevante sul PIL nazionale (oltre il 6%). Le ICC britanniche sembrano avere una forte ambizione nel competere sui mercati internazionali, una visione strategica integrata tra cultura, impresa e tecnologia.

Il sistema italiano, sebbene meno strutturato, presenta una diffusa vivacità culturale e una straordinaria capacità creativa, spesso legate a iniziative locali, associative o individuali. Nel corso degli ultimi anni sono state sviluppate ricerche e analisi sul fenomeno delle imprese culturali creative, fra le più complete vi è la ricerca 2024 di Fondazione Symbola e Unioncamere sul sistema produttivo culturale e creativo.

Lo studio rappresenta due macro-componenti del settore creativo: core e creative driven; il primo identifica le attività direttamente culturali e il secondo i settori produttivi che usano la cultura per fare innovazione. Entrambe le componenti hanno evidenziato una costante ripresa dal 2023 in avanti. Il sistema produttivo culturale e creativo italiano ha, chiaramente, delle nette differenze a seconda del territorio. In particolare, Milano è un palcoscenico molto interessante per lo sviluppo dell’intero sistema, vantando un valore aggiunto di 18,5 miliardi di euro derivante dal settore culturale e creativo che rappresenta il 17,7% dell’intero sistema nazionale (Io sono Cultura, 2024). Da questo dato su Milano nasce una riflessione che riguarda non solo l’offerta ma anche la domanda: si può pensare che lo sviluppo delle imprese culturali creative sia proporzionalmente legato alla domanda, alla sensibilità del pubblico che ne stimola lo sviluppo?

Oltre a questo, bisogna considerare che non è un caso che le imprese culturali si sviluppino dove vi sono economie a sostegno. Allora forse è utile lavorare sulla stimolazione dei territori, sulla possibilità di essere compartecipi della progettazione culturale e creativa perché essa sia coerente con i bisogni del luogo e perché sia davvero permeabile. Raggiunto questo obiettivo, sarà poi più semplice individuare le risorse a sostegno perché sarà relativamente più semplice investire in un progetto credibile.

Il tema economico è centrale non solo rispetto alla sostenibilità ma anche alla redditività. Le imprese culturali creative possono essere a scopo di lucro? La norma non richiama questo aspetto lasciando spazio quindi anche al terzo settore, alle istituzioni culturali formalmente non profit. Di contro, la normativa delle fondazioni di partecipazione, di natura privata con partecipazione pubblica, impone il “no profit”, come se il profitto confliggesse con la vocazione pubblica e lo scopo sociale e culturale che ne ha garantito l’identità giuridica. Questa posizione tradisce una impostazione che scongiura il profitto – in ambito culturale – come elemento negativo e non in linea con lo scopo sociale. Ma è così anche quando il profitto prodotto da una buona capacità gestionale viene messo a disposizione della programmazione culturale e dello scopo sociale? Se costituisse un “tesoretto” per garantire sviluppo alle imprese culturali creative più meritevoli? Io credo che il profitto in ambito culturale debba essere considerato una leva di investimento, un modello circolare che consentirebbe di acquisire una legittimità sociale maggiore dell’attuale, derivata dal fatto che potremmo, ancor più concretamente, misurare gli impatti che la cultura genera.

Le imprese culturali creative possono essere una delle evoluzioni possibili di questo sistema nella misura in cui vengano chiariti natura giuridica, ruoli e                                                                                                  
funzioni e si definisca un perimetro preciso che dà forma alle diverse azioni: ideazione, progettazione, curatela, produzione, comunicazione, promozione. Azioni non scandite in ordine gerarchico ma circolari, propedeutiche le une alle altre.

Accanto a questa struttura è necessario dotarsi di strumenti e politiche che estromettano la precarietà, la mancanza di tutele e aumentino la capacità di investire nelle professioni culturali, dando maggiore potere economico ai contratti e garantendo compensi adeguati. L’aumento della produzione culturale in termini qualitativi richiede un aumento delle professionalità e delle competenze che vanno formate e riconosciute a livello economico e sociale.

La tendenza a inquadrare i professionisti culturali come operatori flessibili e trasversali, capaci di svolgere diverse mansioni contemporaneamente, svilisce la flessibilità e la creatività generando una delegittimazione delle professioni culturali. Su questi aspetti è fondamentale lavorare per generare un approccio diverso, che qualifichi le competenze e le riconosca. Si lavora in ambito culturale per un senso di appartenenza al bene comune, che fa leva sulla sensibilità personale e sulla formazione, non certo perché questa professione garantisce una solida posizione economica.

Economia e Cultura sono ancora distanti nell’immaginario comune. Una delle sfide è senza dubbio la possibilità di accorciare questa distanza. Come farlo? Non è una risposta facile perché non può prescindere dalla lettura del contesto, non c’è una ricetta universale. Dall’osservatorio di Triennale Milano che ho il privilegio di guidare, sostenuta da una competente e instancabile squadra di professionisti, mi rendo sempre più conto che la strategia culturale, la scelta del contenuto deve essere accompagnata da una attenta analisi dei bisogni, una accurata gestione economica, una strategia di sviluppo a lungo termine, la scelta di un linguaggio chiaro e coerente, una certa dose di coraggio/incoscienza, una competenza amministrativo-giuridica.

Sono tanti gli ingredienti da tenere insieme e considerarli singolarmente, seppur nel loro specifico valore, non porta al risultato migliore. Solo dalla relazione intersettoriale nasce il valore aggiunto.


Carla Morogallo è Direttrice generale della Triennale di Milano