di Michele Florit

 

Il tatuaggio è molto più di una semplice decorazione del corpo. È un linguaggio visivo carico di significati, capace di esprimere l’identità, raccontare storie, celebrare momenti e costruire appartenenze.

Il “mercato del tatuaggio” è in continua evoluzione, di pari passo con la diffusione del tatuaggio in ambiti sempre più diffusi della popolazione.

Come in tutte le attività, solamente chi eccelle e si rende riconoscibile, può avere la soddisfazione di sviluppare la propria carriera al riparo dalla concorrenza di altri operatori.

È per questo che il MITA punta a formare l’eccellenza del tatuaggio con l’integrazione di una potente pratica artistica.

Anche la “forza controculturale” del tatuaggio si va stemperando man mano che vengono proposti soggetti sempre più commerciali, “da catalogo” e standard, realizzati in maniera approssimativa da operatori non qualificati.

La potenza del messaggio rimane invece intatta quando il tatuaggio è “a work of art”, realizzato da un artista in esclusiva per il cliente. In tal caso l’opera esprime un sentimento specifico, ed un valore più intenso.

In corrispondenza a ciò anche l’artista ha la possibilità di valorizzare la sua attività (“banalmente”: anche economicamente).

In questo panorama, presso dall’Accademia Tiepolo di Udine (ABAUD) dieci anni fa è nato il MITA (Master Internazionale in Tatuaggio Artistico), che rappresenta un’eccellenza formativa unica nel suo genere. È il primo corso accademico italiano interamente dedicato al tatuaggio artistico, imponendosi come punto di riferimento in ambito europeo per chi desidera coniugare competenza tecnica, ricerca artistica e visione culturale.

Gli ambiti della formazione

Il percorso formativo del MITA si sviluppa su due anni accademici ed è articolato in quattro aree fondamentali:

  • Laboratorio di tatuaggio: cuore pulsante del corso, in cui gli studenti sviluppano la propria tecnica e iniziano a definire uno stile personale attraverso la pratica quotidiana e la sperimentazione.
  • Formazione organizzativa: fornisce competenze imprenditoriali, amministrative e di marketing fondamentali per avviare e gestire con successo una propria attività nel settore.
  • Tirocinio pratico: momento di confronto con la realtà professionale, indispensabile per mettere alla prova le competenze acquisite.
  • Area artistica: spazio creativo dedicato al confronto con i linguaggi visivi contemporanei e con le discipline delle arti visive, dalla pittura al disegno, dalla grafica alla composizione.

Uno degli elementi più innovativi del MITA è il piano di studi. Esso è integrato nel percorso accademico di Diploma Accademico di Primo Livello in Pittura e Arti Visive. Questo consente il riconoscimento dei crediti artistici acquisiti nel corso degli studi, per il conseguimento del Diploma triennale in Pittura e Arti Visive.

Il tatuaggio come forma d’arte

Nel contesto del MITA, il tatuaggio viene affrontato non solo come pratica estetica o artigianale, ma come vera e propria disciplina artistica. Ogni opera sulla pelle è frutto di una progettazione visiva consapevole, di una riflessione sul linguaggio e sui codici stilistici, ma anche di una relazione profonda con il corpo e con la storia personale del cliente. Questo approccio porta il tatuatore a porsi come artista, narratore e mediatore culturale.

Una storia millenaria:

il tatuaggio tra ritualità, identità e guerra

La storia del tatuaggio attraversa millenni e culture, configurandosi come una delle più antiche forme di espressione umana. Sin dalle sue origini, il tatuaggio non ha avuto una funzione puramente estetica, ma ha rivestito un ruolo rituale, identitario e spesso bellico. È una pratica che ha lasciato impronte visibili nella pelle dell’umanità intera, dai ghiacciai alpini alle isole del Pacifico, dalle steppe eurasiatiche alle foreste nordiche.

Le prime testimonianze archeologiche risalgono al Neolitico: la mummia di Ötzi, rinvenuta sulle Alpi tra Italia e Austria e risalente a oltre 5.000 anni fa, presenta più di 60 incisioni pigmentate, in corrispondenza di punti del corpo legati al dolore cronico, suggerendo un uso curativo o magico-terapeutico del tatuaggio.

Con l’evoluzione delle società, il tatuaggio si è strutturato come marcatore sociale e simbolico. In molte culture antiche, è stato utilizzato come segno di appartenenza, status, forza e protezione spirituale. Tra le sue molteplici funzioni, quella bellica ha avuto un ruolo cruciale: marchiare i corpi dei guerrieri significava non solo distinguerli in battaglia, ma infondere coraggio, intimidire i nemici, invocare protezione soprannaturale e tramandare gesta eroiche.

I Celti, i Germani e le popolazioni del Nord

Già gli antichi Romani avevano notato con meraviglia e timore le decorazioni corporali dei Celti, dei Britanni e dei Germani, popoli che abitavano le regioni settentrionali dell’Europa. Plinio il Vecchio e Tacito descrivono queste popolazioni come tatuate, con segni distintivi che coprivano braccia, volti e toraci. I Pitti della Scozia, ad esempio, erano noti per i loro tatuaggi blu o verdi ottenuti dalla pianta dell’isatis (una forma di guado). Le loro decorazioni corporee avevano valenze magico-protettive e fungevano da segnali d’intimidazione in battaglia.

Anche i Germani utilizzavano il tatuaggio per rafforzare l’identità del guerriero, celebrarne il coraggio e fissare nella carne i vincoli di appartenenza tribale. I Romani, che spesso si confrontarono militarmente con queste popolazioni, registrarono con interesse – e spesso con repulsione – l’uso del tatuaggio come simbolo di alterità e di “barbarie”, contribuendo a codificare un’immagine ambivalente del tatuaggio nel mondo latino: da un lato lo ammiravano per la sua forza simbolica, dall’altro lo associavano alla marginalità, ai nemici, agli schiavi.

Polinesia e tatuaggio rituale

In un contesto molto diverso, nelle isole della Polinesia, il tatuaggio (tatau) era parte integrante della cultura guerriera. I giovani venivano sottoposti a lunghi rituali di tatuaggio per segnare il passaggio all’età adulta e prepararsi alla vita come combattenti. I disegni – che coprivano gran parte del corpo, dal viso ai piedi – erano carichi di simbolismi legati alla forza, al coraggio e agli antenati. Ogni elemento raccontava la genealogia e i successi del guerriero.

Il processo, lungo e doloroso, era anche una prova di resistenza fisica e spirituale, durante la quale il corpo veniva trasformato in un'armatura visiva. Il tatuaggio, in questi contesti, era anche un linguaggio non verbale capace di raccontare l’intera esistenza del portatore.

Il tatuaggio tra i popoli asiatici e l’Estremo Oriente

In Giappone, il tatuaggio ha conosciuto una storia complessa. Le prime attestazioni risalgono all'era preistorica Jōmon (10.000-300 a.C.), ma è nel periodo Edo (1603–1868) che l'irezumi si sviluppa come forma artistica raffinata. Anche qui il tatuaggio veniva adottato da gruppi sociali marginali o da guerrieri, come segno di resistenza, fedeltà o punizione. Le grandi composizioni a tema mitologico, floreale o animale si diffondevano come veri e propri racconti epici sulla pelle.

In Cina e in Thailandia, invece, i tatuaggi (sak yant) avevano forte connotazione religiosa e protettiva, spesso realizzati da monaci buddisti per imprimere sulla pelle mantra e simboli di difesa spirituale, particolarmente amati dai soldati.

Le Americhe e l’Africa

Nel continente americano, le popolazioni precolombiane (come i Maya e gli Inca) utilizzavano il tatuaggio come elemento cerimoniale e guerriero. In molte tribù, il tatuaggio sanciva l’entrata nella casta dei combattenti, oppure celebrava le vittorie sul campo. Nell’Africa subsahariana, il tatuaggio conviveva spesso con la scarificazione, una pratica dolorosa che associava bellezza e forza d’animo: solo chi sopportava il dolore poteva entrare nella comunità adulta o guerriera.

Il Medioevo e la stigmatizzazione del tatuaggio

Con l'avvento del cristianesimo e del suo dominio culturale in Europa, il tatuaggio subì una progressiva demonizzazione. Associato a paganesimo, tribalismo o devianza, fu proibito in molte regioni e relegato ai margini della società: appannaggio di prigionieri, schiavi, eretici o mercenari. Solo in rari casi – come nei pellegrinaggi in Terra Santa – venne recuperato in forma religiosa per marcare l’avvenuta devozione.

Rinascita moderna

A partire dal XVIII secolo, il tatuaggio fu riscoperto dagli esploratori europei – come James Cook – che entrarono in contatto con le popolazioni oceaniche. Tornati in patria, marinai e soldati iniziarono a tatuarsi come segno d’identità e appartenenza. Il tatuaggio tornò ad assumere valenze militari, diventando comune tra i soldati di marina, i legionari, i prigionieri di guerra. Nella prima e seconda guerra mondiale, molti soldati europei si tatuavano simboli di fortuna, nomi di familiari o icone religiose per protezione spirituale.

Questa nuova diffusione del tatuaggio nel contesto bellico e militare ha contribuito a riabilitare la sua funzione eroica, restituendogli un’aura di coraggio, memoria e cameratismo che avrebbe influenzato il tatuaggio contemporaneo.

Gli stili del tatuaggio contemporaneo

Il tatuaggio artistico contemporaneo si nutre di una pluralità di stili e linguaggi, spesso contaminati tra loro. Alcuni dei principali sono:

  • Realistico: riproduce fedelmente soggetti fotografici, come ritratti, animali, oggetti, con una resa tridimensionale e dettagliata.
  • Tradizionale (Old School): caratterizzato da linee spesse, colori saturi e soggetti iconici come ancore, rose e cuori, con radici nella cultura marinaresca americana.
  • New School: evoluzione dell’Old School, con soggetti più ironici, colori accesi e linee espressive.
  • Blackwork: uso intensivo del nero, spesso con motivi geometrici, tribalismi o pattern astratti.
  • Dotwork: tecnica puntinata che crea effetti di chiaroscuro attraverso la densità dei punti.
  • Orientale: ispirato alla tradizione giapponese, con grandi composizioni narrative ricche di simboli (draghi, carpe koi, fiori di ciliegio).
  • Acquerello (Watercolor): effetti pittorici e sfumature simili alla pittura ad acquerello.
  • Minimalista: linee sottili, soggetti simbolici e spesso monocromatici, adatti a racconti intimi e personali.

Il MITA dedica ampio spazio all’analisi e alla sperimentazione di questi linguaggi, permettendo agli studenti di costruire un proprio vocabolario visivo consapevole.

Il tatuaggio come codice antropologico:

identità, memoria e incarnazione del simbolo

Il tatuaggio, nella sua essenza più profonda, è un atto antropologico radicale: un gesto che imprime nel corpo un segno, una traccia indelebile, un simbolo. Non si tratta solo di ornamento, ma di una scrittura che attraversa la pelle per raccontare qualcosa che non può essere detto solo a parole. Ogni tatuaggio è un piccolo rito, una soglia oltre la quale l’identità si consolida, si manifesta o si trasforma.

In tutte le culture del mondo, antiche e moderne, il tatuaggio è stato – e continua ad essere – un linguaggio visivo di appartenenza, trasformazione, memoria e potere. La pelle, confine poroso tra il sé e il mondo, viene trasformata in una superficie narrativa, in un archivio simbolico. L’atto del tatuarsi è quindi un fenomeno culturale e sociale, ma anche un’esperienza intima, che coinvolge la percezione del proprio corpo, del tempo e della relazione con gli altri.

Un segno di passaggio

In molte società tradizionali, il tatuaggio è parte di riti di passaggio. È il simbolo tangibile dell’attraversamento da uno stato all’altro: dall’infanzia all’età adulta, dalla vita solitaria alla comunità, dal profano al sacro. Tatuarsi significa “essere entrati in una nuova fase”, accettare una trasformazione e darle forma visibile. Il dolore fisico che accompagna il tatuaggio assume, in questo senso, un valore iniziatico: per diventare “altro da sé”, bisogna attraversare un limite, fisico ed emotivo.

Il corpo come documento identitario

Il corpo, per molte culture, è il primo documento di identità. Prima della scrittura, della carta, della cittadinanza, era il corpo a raccontare chi siamo: da dove veniamo, cosa abbiamo vissuto, a chi apparteniamo. Il tatuaggio ha rappresentato, nei secoli, uno degli strumenti principali per affermare questa identità. Poteva indicare l’etnia, la tribù, la religione, la casta, ma anche il mestiere, i meriti di guerra o la devozione spirituale.

Nel mondo contemporaneo, questa funzione identitaria si è evoluta, ma resta centrale. In un contesto globalizzato, dove le appartenenze sono fluide e mutevoli, il tatuaggio diventa uno specchio del sé: racconta le nostre scelte, i nostri valori, le nostre perdite e conquiste. È un modo per riappropriarci del corpo e, allo stesso tempo, per metterlo in relazione con il mondo.

La pelle come luogo di memoria

Il tatuaggio è anche un atto di memoria incarnata. Le persone si tatuano per ricordare: un amore perduto, una nascita, un cambiamento, una sfida superata, un trauma elaborato. Ogni segno sulla pelle è un punto di ancoraggio esistenziale. Il corpo diventa un diario permanente, in cui ogni immagine, parola o simbolo è una pagina.

A differenza della memoria mentale, soggetta all’oblio, la memoria tatuata resiste, si fa carne, accompagna nel tempo. Tatuarsi è un modo per dire: "questo evento, questa persona, questo dolore o questa gioia sono parte di me, e lo saranno per sempre". In questo senso, il tatuaggio è una forma di eternizzazione dell’esperienza.

Perché incidere il proprio corpo?

Tatuarsi significa scavare un significato nel corpo, letteralmente. È un gesto che va contro l’effimero, contro la logica del consumo e dell’apparenza. È un atto di coraggio e di consapevolezza, perché implica una scelta irreversibile: rendere visibile ciò che, normalmente, resta nascosto. Ma perché l’essere umano sente questo bisogno?

1.    Per affermare il controllo sul proprio corpo – In una società che impone modelli e standard, il tatuaggio è un gesto di appropriazione: "questo corpo è mio, lo modifico come voglio". È una forma di libertà estetica e politica.

2.    Per dare forma al dolore – Molti si tatuano dopo un lutto, una malattia, un evento traumatico. Incidere un simbolo sulla pelle è un modo per esternalizzare il dolore, per trasformarlo in bellezza, per guarire attraverso l’arte.

3.    Per dire chi siamo – Il tatuaggio è una dichiarazione: non sempre per gli altri, spesso per se stessi. È una firma, una preghiera, un amuleto. È il desiderio di scrivere la propria storia con l’inchiostro del vissuto.

4.    Per lasciare un segno – In un mondo che cambia rapidamente, dove tutto è instabile, il tatuaggio è una forma di permanenza. Il segno inciso nella carne resiste al tempo, come prova tangibile del nostro passaggio.

Il tatuaggio come spazio relazionale

Infine, è importante sottolineare la dimensione relazionale del tatuaggio. Il tatuatore non è solo un esecutore, ma spesso un testimone e un mediatore. Tra chi tatua e chi si fa tatuare si instaura un legame intimo, fondato sulla fiducia e sul racconto. Il tatuaggio è un dialogo, un rito a due. L’artista ascolta, interpreta, accompagna. Ed è anche per questo che il tatuaggio non è mai solo un disegno: è un evento umano, un frammento di relazione inciso sulla pelle.

Aspetti psicologici del tatuaggio

Anche la psicologia ha dedicato crescente attenzione al fenomeno del tatuaggio. Studi recenti dimostrano che tatuarsi può avere effetti positivi sull’autostima, sulla percezione del corpo e sulla gestione delle emozioni. Il tatuaggio diventa una forma di rielaborazione di eventi traumatici, un simbolo di rinascita o di riconciliazione con la propria immagine.

Per alcuni, tatuarsi rappresenta un atto di controllo sul corpo, una modalità per riaffermare la propria agency, soprattutto in seguito a esperienze di malattia, lutto o transizioni difficili. Per altri, è un gioco identitario, una modalità per rappresentare appartenenze o distanze simboliche (es. ribellione, spiritualità, amore, fede, arte).

Il tatuatore, in questo senso, assume un ruolo delicato: è testimone e co-autore di un processo trasformativo che coinvolge profondamente la psiche del cliente.

Un laboratorio per il futuro

Nel corso dei suoi dieci anni di attività, il MITA ha formato generazioni di tatuatori-artisti, contribuendo a elevare il tatuaggio a linguaggio artistico riconosciuto. Grazie all'integrazione con l'Accademia Tiepolo e al legame con il tessuto culturale locale e internazionale, MITA non è soltanto una scuola tecnica, ma un vero e proprio laboratorio di idee, dove arte, cultura, antropologia e impresa si intrecciano.

Il futuro del tatuaggio passa anche da qui: dalla capacità di formare professionisti consapevoli, dotati non solo di abilità tecniche, ma anche di strumenti culturali, estetici e relazionali per affrontare con sensibilità e creatività le sfide di un’arte in continua evoluzione.


Dopo gli studi in Economia, Michele Florit ha lavorato per Fincantieri e Danieli come controller e poi come ceo di aziende del gruppo siderurgico. Volendo provare l'esperienza imprenditoriale, ha fondato un birrificio artigianale (il più grande in Italia, al tempo). È entrato poi nel settore Education, creando una scuola privata laica e poi l'Accademia di Belle Arti di Udine (ABAUD), dove ha sede il MITA, il primo corso accademico di tatuaggio in Europa. Va al lavoro in bici e vive a Udine con due figli, una moglie ed un cane.