Antonio Calabrò

C’è un vero e proprio soft power alla base della capacità competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali. È fatto di qualità, bellezza e funzionalità dei nostri prodotti, di creatività e innovazione, di design, di cura per la sostenibilità ambientale e sociale. Di una vera e propria “cultura politecnica” capace di originali sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di una straordinaria attrattività del Made in Italy e dell’Italia in generale non solo per gli investimenti finanziari, ma anche per le scelte d’impegno di imprenditori, manager, scienziati, tecnologi e studenti che considerano sempre più spesso l’Italia come “the place to be”, parafrasando la brillante definizione data dal “New York Times” su Milano nel 2015, al tempo dello splendore dell’Expo.

Vale la pena ricordarsene non solo in omaggio intellettuale a Joseph S. Nye, uno dei maggiori politologi dei nostri tempi inquieti, scomparso ai primi di maggio 2025 (il soft power come diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, invece dell’esibizione prepotente della forza politica e militare, oggi tanto insistentemente alla ribalta delle opinioni pubbliche mondiali). Ma anche, pragmaticamente, per farne la base di una vera e propria politica industriale italiana in chiave europea, in grado di salvare e rilanciare la nostra manifattura e le economie collegate (servizi high tech, logistica, finanza d’impresa, ricerca scientifica, design e tecnologie, formazione) e di consolidare la nostra anima, profonda e ben radicata, di grande paese industriale.

Proprio in questa stagione segnata da una competizione internazionale particolarmente dura e selettiva (aggravata dalle drammatiche pensioni geopolitiche che destabilizzano i mercati e dai dazi americani), la risposta del nostro mondo industriale alle crisi sta, appunto, nella ricerca dell’eccellenza tecnica e nel rafforzamento dei valori etici ed estetici che ispirano la manifattura: il cosiddetto “bello e ben fatto”.

I valori raccontati dal Compasso d’oro alle imprese italiane

 La conferma della forza competitiva di un simile orientamento arriva dall’elenco dei venti vincitori dei Compassi d’Oro internazionali e dei destinatari delle trentacinque menzioni speciali, un elenco annunciato, all’inizio di settembre, dalla giuria presieduta da Maite Garcìa Sanchis, nel Padiglione Italia dell’Expo di Osaka, progettato da Mario Cucinella.

Il tema di quest’anno del premio, nato nel 1954 per iniziativa di Gio Ponti e promosso dall’Adi, l’Associazione del Design Industriale e adesso legato alle scadenze delle Esposizioni Internazionali, era  “Designing Future Society for our Lives”. E tra i venti vincitori dei Compassi, dodici sono i prodotti di imprese italiane: Pirelli, Generali Italia, Kartell, Bonotto, Fratelli Guzzini e iGuzzini, Campagnolo, Caimi Brevetti, Martinelli Luce, Vimar, Vetreria Vistosi, Istituto Italiano di Tecnologia per il Centro Protesi dell’Inail). Segno, appunto, di un’eccellenza della nostra “cultura politecnica” di cui abbiamo appena detto e di una capacità competitiva di respiro internazionale. La tenuta dell’export italiano (oltre 620 miliardi), nonostante le turbolenze delle relazioni commerciali globali, ne è esemplare testimonianza. Sono italiane anche la maggior parte delle imprese delle 35 menzioni (come Irinox, Poliform, Archivi Olivetti, Fondazione Rovati, Mandelli 1953, Smeg, Elica, EssilorLuxottica, Venini, etc.).

Cosa raccontano i prodotti premiati? Guardiamo meglio, cominciando con il pneumatico P Zero E, come eccellenza di “Design for the Mobility”, costruito con gran parte dei materiali naturali o riciclati, una sintesi innovativa tra qualità, prestazioni e sostenibilità: “Il primo pneumatico a ottenere un Compasso d’Oro, un prestigioso riconoscimento che celebra l’eccellenza progettuale di Pirelli e la portata innovativa di prodotti come il P Zero E, confermando il ruolo della ricerca e sviluppo come motore di progresso e sostenibilità, grazie anche all’impiego sempre più capillare di tecniche avanzate di intelligenza artificiale in tutte le fasi dello sviluppo”, commenta Piero Misani, Executive Vice President e Chief Technical Officer di Pirelli.

Ci sono poi una ruota da bicicletta, una serie di tessuti sostenibili per il fashion luxury e di tessuti fonoassorbenti per gli ambienti di lavoro, i sistemi di illuminazione e le lampade e poi ancora le sedute ergonomiche, i proiettori urbani, una piattaforma digitale di servizi, un esoscheletro modulare. Ne emerge la rappresentazione delle capacità delle imprese italiane di mettere sui mercati prodotti e servizi particolarmente innovativi, in grado di dare risposte originali ed efficaci ai bisogni del vivere, dell’abitare e del lavorare a misura di efficienza, benessere, qualità e di una migliore prospettiva di consumi che vada ben oltre il consumismo di massa e investa positivamente l’ambiente e le comunità sociali. Imprese, insomma, a misura degli Stakeholders Values, i valori e gli interessi delle persone e dei territori con cui l’industria entra in contatto e dal cui confronto ricava cultura e legittimazione sociale.   

Qualità e sostenibilità, insomma, sono valori oramai incorporati nei sistemi produttivi e nei modelli di business dell’ “Italia che fa bene l’Italia”, per usare una sintesi cara a Symbola. E cioè veri e propri modi di fare impresa, conquistare migliori posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati, rafforzare il consenso di consumatori sofisticati ed esigenti. Sono anche connotazioni forti di una cultura d’impresa evoluta, che ha radici nella tradizione manifatturiera italiana e proiezioni verso un futuro più attento alla qualità della vita, del lavoro, dei costumi sociali.

Sostiene Luciano Galimberti, presidente dell’Adi: “Il design è vissuto come disciplina che attraversa le nostre vite, capace di superare i confini nazionali e affrontare le sfide globali con innovazione, qualità e attenzione alla sostenibilità”. L’Adi Design Museum, diretto da Andrea Cancellato, regista dell’”operazione Osaka”, ne offre testimonianze storiche esemplari (Kartell, Guzzini e Pirelli sono marchi ricorrenti), esempi di una tradizione di “cultura del progetto” e “cultura del prodotto” che ha saputo sfidare i tempi e continuamente si rinnova: “Soluzioni per un’umanità più consapevole. Connessa e responsabile. Attenta all’economia circolare, ai progetti a basso impatto ambientale. E alle scelte che mettono il design a servizio della vita, immaginandolo come una sorta di esperanto, un linguaggio di valore universale che collega bisogni e visioni” (Annachiara Sacchi, Corriere della Sera, 6 settembre 2025). 

Un design, insomma, come caratteristica profonda dell’Italia contemporanea, uno degli strumenti principali grazie al quale il Paese aveva saputo riprendersi dopo la guerra, costruire il boom economico e diventare rapidamente una potenza industriale, tra le prime al mondo, ben presente sui mercati internazionali. Una caratteristica continuamente attuale e progettuale.

Mario Vattani, commissario del Padiglione Italia a Osaka, commenta: “È proprio questa idea di Italia che vogliamo promuovere: una nazione capace di unire cultura e industria, creatività e innovazione, tradizione e visione strategica”. 

I Compassi d’Oro, in altri termini, confermano e rafforzano una scelta produttiva. E culturale. Secondo la sapiente lezione di Gio Ponti: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Un’indicazione strategica che ha, appunto, un nome semplice ed essenziale: design. E un aggettivo qualificante: sostenibile.

Una sostenibilità su cui insistere, nonostante i venti contrari che spirano anche all’interno dell’opinione pubblica di grandi paesi industriali, a cominciare dagli Usa. Superando rigidità normative e burocratiche (il Green Deal della Ue ne risente, con danni pesanti al sistema industriale europeo, come mostra per esempio la crisi del settore automotive). E mettendo in piedi, invece, strumenti validi di politica industriale comune che stimolino innovazione, investimenti, produttività, con una migliore “economia della conoscenza”. I Rapporti elaborati per conto della Commissione Ue da Mario Draghi ed Enrico Letta, già lo scorso anno, contengono indicazioni preziose. Vanno tirati fuori dai cassetti in cui sono stati riposti e trasformati rapidamente in scelte concrete, provvedimenti, decisioni di investimenti adeguate.

Serve una competitività più efficace e sostenibile, insomma. Perché l’Italia possa continuare a essere un paese manifatturiero. Con un futuro industriale da cui dipendono anche la qualità e la solidità del nostro futuro, economico, ma anche sociale e civile.

Musei e archivi storici d’impresa come “capitale sociale”

In questo contesto, assumono un forte ruolo culturale e competitivo anche i musei e gli archivi storici d’impresa: lavoro e conoscenza, originale creatività e sofisticata attitudine allo sviluppo delle nuove tecnologie sono componenti essenziali di un capitale sociale che connota, in modo sempre più evidente, l’identità, aperta e dialettica, complessa e polifonica, dell’Italia produttiva in cerca di un migliore futuro.

I musei, in generale, come attori essenziali del nostro sistema di valori, costudiscono e valorizzano la memoria e ne stimolano la diffusione, favoriscono la partecipazione all’interno di un territorio e di una comunità e dunque ne alimentano la cultura della sostenibilità ambientale e sociale e ne rafforzano l’impegno civile. Aiutano la condivisione delle conoscenze e la contaminazione dei saperi. E sono dunque strumenti fondamenti di crescita culturale e quindi economica e sociale. I musei, insomma, vanno vissuti come testimoni della Storia e delle storie. E lievito del futuro. Spazi attivi per “l’avvenire della memoria”.

Queste parole, così cariche di senso e di valori forti, sono di Michele Lanzinger, ex direttore del Museo delle Scienze di Trento e presidente di ICOM Italia (l’International Council of Museums) ama mostrare per raccontare come stanno cambiando le strutture museali nella stagione In cui cresce, soprattutto tra le nuove generazioni, la sensibilità sui temi ambientali e sociali e si diffonde un pur complesso e controverso pensiero critico sul ruolo dei musei e sulle relazioni tra le varie culture. Si va oltre i tradizionali confini del primato della rappresentazione occidentale della cultura e dell’arte (per saperne e capirne di più, vale la pena affidarsi alle pagine di “Musei possibili. Storia, sfide, sperimentazioni”, a cura di Fulvio Irace, edito da Carocci: dal simbolo dell’Altes Museum di Berlino icona del museo illuminista alla rivoluzione del Centre Pompidou e alle nuove costruzioni nel paesi arabi, come il Louvre ad Abu Dhabi, sino alle sperimentazioni digitali). E si cerca di costruire, tra conflitti e contrapposizioni (la cancel culture, le tendenze woke) un dialogo, un confronto, tra idee diverse del mondo e differenti rappresentazioni.

Lanzinger, dunque, iscrive la responsabilità dei musei nel contesto dei 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile e, in particolare, dei temi indicatori per la Cultura dell’Unesco (ambiente e resilienza, prosperità e sostentamento, conoscenza e competenza, inclusione e partecipazione) e spiega che “portare lo sviluppo sostenibile all’interno del mondo dei beni culturali vuol dire mettere in gioco la capacità di avere uno sguardo rivolto verso il futuro e ampliare il raggio d’azione degli enti culturali coinvolti”.

L’Agenda 2030 dell’Onu, insomma, ispira le scelte dell’Unesco e dell’Icom. E il riflesso è evidente proprio nella definizione di “museo” adottata dall’Icom con il documento approvato a Praga nell’agosto del 2022: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale”. E ancora: “Aperti al pubblico, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione delle conoscenze”. 

Risuonano, qui, parecchie delle parole da cui siamo partiti. E indicano una strada chiara, che investe in pieno il passaggio dei musei “da agenti di conservazione, ricerca, esposizione ed educazione a veri agenti di innovazione sociale ed economica”. Hub culturali e stimoli “per un pubblico contemporaneo sempre più diversificato e globale”. Servizio pubblico, anche quando si tratti di strutture private. Spazi di conoscenza e dunque di libertà. Di confronto. Di dialogo. E, per l’Europa e gli altri paesi occidentali, spazio fondamentale di democrazia.

Tornano in mente le indicazioni dell’articolo 9 della Costituzione italiana, nella nuova formulazione approvata nel maggio 2021: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”. Ecco un orizzonte di riferimento sapiente e responsabile. Di cui i musei sono parte essenziale. Anche i musei d’impresa, naturalmente.  

Le indicazioni dell’Icom e la definizione di museo come luogo di educazione, piacere, riflessione e condivisione delle conoscenze, infatti, sono condivise da Museimpresa, l’associazione promossa oltre vent’anni fa da Assolombarda e Confindustria, forte dell’adesione di oltre 160 musei e archivi storici aziendali e impegnata da tempo a “valorizzare memoria e identità nel tempo delle grandi transizioni”. La transizione ambientale e quella digitale. Le transizioni verso nuovi equilibri geopolitici, che mettono in crisi le vecchie mappe di una globalizzazione diseguale e distorcente. Le modifiche dei sistemi di produzione e dei prodotti sotto la spinta delle innovazioni amplificate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Le migrazioni. E le transizioni generazionali, con antichi e nuovi divide di genere, età, provenienza geografica, conoscenze.

Proprio le imprese sono luoghi fisici e culturali quanto mai sensibili a tutti questi temi. Sono strutture guidate da spinte d’innovazione, produttività e competitività. Ma proprio nella stagione della Stakeholders Economy cui abbiamo già fatto cenno, pure l’inclusione sociale, i valori del lavoro e della sua sicurezza e il rispetto degli equilibri ambientali sono fattori fondamentali di sviluppo, appunto sostenibile e sempre più apprezzato dai mercati (dei consumatori ma anche degli investitori finanziari). 

Nei musei e negli archivi storici, appunto, ci sono le testimonianze, quantomai attuali, di questi processi economici e sociali. I documenti e le immagini, le schede tecniche e i racconti che rivelano la forza, storica e contemporanea, dell’impresa italiana, a cominciare dalla sua manifattura e le qualità di una vera e propria “metamorfosi” industriale che privilegia qualità e socialità.

Lavorare, infatti, sulla memoria e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale industriale dell’Italia è un modo, per le imprese, di testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare concretamente alla qualità dello sviluppo del nostro Paese. Negli archivi e nei musei d’impresa c’è la storia di donne e uomini che, di fronte alle sfide del tempo, hanno saputo dare risposte di crescita che sono evidenti, sul piano economico, nei dati di successo dell’export (620 miliardi, che collocano l’Italia tra i primi cinque paesi al mondo) e, su quello sociale e culturale, nella crescente affluenza di frequentatori dei musei d’impresa, soprattutto da parte delle nuove generazioni. Destinazioni ad alto potenziale per il turismo industriale. Testimonianze esemplari, comunque, di una “civiltà delle macchine”, dell’intraprendenza e del lavoro che costituisce un’asset fondamentale per scrivere, proprio partendo dall’economia e dai musei, una migliore “storia al futuro”.

Legare il “saper fare” al “far sapere”:

costruire un miglior racconto dell’intraprendenza

Proprio il “saper fare” delle imprese, da questo punto di vista, è uno straordinario punto di forza, ancora più prezioso in tempi di difficoltà e tensioni. E va accompagnato da una dimensione complementare, quella del “far sapere”. Costruendo, cioè, un nuovo e migliore racconto delle caratteristiche e delle qualità delle imprese, che valorizzi il loro essere non solo attori economici capaci di reggere le sfide di mercati sempre più selettivi, ma anche attori sociali e culturali, componenti essenziali di una comunità che ha radici nei territori produttivi e sguardo largo sul mondo. Un racconto, ancora, che sappia esprimere il valore di una sintesi originale tra competitività e inclusione, attenzione alla produttività ma anche sofisticata etica d’impresa: una “morale del tornio” che merita una migliore valorizzazione.

Il punto di rilancio sta nel rafforzamento e nello sviluppo di un’idea che da tempo assume peso crescente nella strategia dei valori imprenditoriali e confindustriali: fare impresa significa fare cultura, se cultura è non solo letteratura e arti figurative, musica e teatro, cinema e fotografia ma anche l’universo dei saperi scientifici e delle conoscenze tecnologiche, dell’economia e delle relazioni professionali nel mondo del lavoro.

Cultura è infatti, una nuova formula chimica, un dinamico processo di produzione meccanico e meccatronico (rileggere “Il sistema periodico” e “La chiave a stella” di Primo Levi, per averne conferma), un brevetto o un nuovo materiale industriale high tech, l’architettura di una fabbrica sostenibile (la sicurezza sul lavoro ne è pilastro portante), un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale che migliora la ricerca per prodotti d’avanguardia o una molecola farmaceutica che innova profondamente il mondo delle life sciences, con ricadute positive sulla salute e la qualità della vita di milioni di persone.

“Fabbriche aperte”, dunque, come obiettivo di percorsi già sperimentati (da Federchimica, oramai da tempo, ma anche in Piemonte, nel Nord Est e in Puglia, nel Giorno delle Piccole Imprese e nelle tante attività di Museimpresa). Di raccordi, con la Giornata del Made in Italy promossa, a metà aprile, dal ministero dell’Industria. E di organizzazione di nuove iniziative, in coincidenza con l’apertura della Settimana della Cultura d’Impresa, a metà novembre. Spirito di comunità e capitale sociale, appunto.

Imprese aperte al pubblico degli stakeholders e alle scuole, fin dagli istituti primari, agli appassionati del turismo industriale (è sempre più interessante vedere dove e come si producono gli oggetti del miglior Made in Italy) ma anche alle donne e agli uomini che per professione raccontano e documentano, scrittori e registi, fotografi e attori. Per costruire così una nuova e più reale rappresentazione della qualità e della sostenibilità, ambientale e sociale, delle nostre imprese. E contribuire a superare quella cultura anti-industriale e anti-scientifica e tecnologica purtroppo ancora tanto diffusa nel nostro Paese.

È un’operazione ambiziosa di quella “cultura politecnica” di cui abbiamo detto, ben oltre le rappresentazioni autoreferenziali e retoriche del tradizionale storytelling. E una scelta strategica che sostiene e rafforza le capacità competitive del sistema produttivo: storia e memoria, bellezza e qualità, creatività e tecnologia d’avanguardia come componenti essenziali di un “orgoglio industriale” che rilancia il Made in Italy a livello globale. Il nostro soft power, appunto.


Antonio Calabrò è Presidente di Museimpresa e della Fondazione Assolombarda