I rituali di resistenza sono cultura
di Beatrice Carrara
Parlare di subculture e controculture è sempre un po’ rischioso. Le categorie servono a orientarci, certo, a dare un nome alle cose, ma non sempre ci aiutano a capire davvero chi abbiamo davanti. Chi si sveglia dicendo: “oggi sarò parte di una controcultura”. Certamente nessuno. Spesso, chi crea queste etichette lo fa dall’esterno, e chi vi viene incluso non si riconosce affatto in esse. “Subculturale”, “alternativo”, “controculturale” sono parole che arrivano da fuori, che cercano di racchiudere in una definizione gruppi e pratiche che, invece, cercano soprattutto modi per esistere, per resistere, per esprimersi. Per questo vale la pena ascoltarle, leggerle nel loro contesto, senza sminuirle.
Negli anni ’70, alcuni studiosi del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham – tra cui Stuart Hall e Tony Jefferson – hanno cercato di fare proprio questo. Nella pubblicazione Rituali di resistenza, hanno dato voce a quelle che allora venivano chiamate “Culture Giovanili”, con un'attenzione particolare alle subculture. Hanno cercato di comprenderle non come semplici movimenti di ribellione contro la cultura dominante, come spesso le descrivevano le narrazioni pubbliche (e forse ancora oggi così le descriviamo), ma come risposte strutturate, cariche di significato simbolico e sociale.
Secondo questa prospettiva, ogni gruppo sociale sviluppa un proprio modo di vivere e di dare senso alla realtà. La cultura, in questo senso, non è fatta solo di oggetti o arte, ma del modo in cui le persone affrontano la vita quotidiana. È stile di vita, scelta, reazione. E nasce da condizioni storiche, economico-materiali e simboliche.
Quando una cultura “figlia” si allontana da quella “madre”, smettendo di riconoscersi nei suoi valori, si apre lo spazio per una subcultura. Questa non è del tutto separata dalla cultura madre: la eredita, la rielabora, la trasforma, ma lo fa per rispondere ad un disagio, a una frattura rispetto a essa. Un esempio significativo è quello dei Teds, una subcultura nata negli anni ’50 in Inghilterra, presa in esame proprio dai ricercatori del CCCS.
Secondo gli studiosi, i Teds ereditarono dalla loro classe d’origine – la classe operaia – valori fondamentali come la lealtà e la solidarietà tra membri di uno stesso gruppo. Tuttavia, non si limitarono a riprodurre quei valori: li reinterpretarono alla luce dei problemi sociali della loro condizione. In particolare, cercarono di riaffermare lo spirito di gruppo e i valori tradizionali della classe operaia dei quartieri poveri, tentando allo stesso tempo di esercitare un controllo, anche solo simbolico, su uno spazio urbano soggetto a una duplice espropriazione: quella materiale, da parte degli imprenditori edili, e quella più sottile, “a bassa intensità”, che coinvolgeva anche l’identità e il senso di appartenenza.
Questa dinamica aiuta a comprendere quanto pesi, per una subcultura, il confronto con la cultura dominante, che può essere diversa rispetto a quella “madre”, cioè con quel sistema di credenze e simboli che stabilisce cosa è giusto, bello, normale. Le subculture nascono proprio nei punti in cui questa egemonia non riesce a contenere tutto: sono tentativi di rinegoziare e opporsi ai significati imposti dal discorso dominante.
Uno degli strumenti principali di questa rinegoziazione è lo stile. La creazione di uno stile distintivo è stata resa possibile anche grazie all’aumento del reddito disponibile per i giovani nel secondo dopoguerra, che ha aperto nuove possibilità di consumo e di espressione personale.
Anche qui, l’esempio dei Teds è emblematico: si appropriarono dello stile edoardiano – simbolo dell’eleganza borghese del tempo – e lo rielaborarono secondo le loro sensibilità sociali e culturali: pantaloni a tubo, moleskin o colletti di raso sulle giacche, calzature in camoscio con la suola spessa a crepe. Attraverso queste modifiche, lo trasformarono in un’icona: lo stile dei Ted Boys. Non si trattava solo di moda, ma di un modo per affermare un’identità, per conquistare uno status, per esprimere una critica sociale attraverso l’aspetto esteriore.
Delle riflessioni delicate e interessanti emerge quanto questi movimenti di rinegoziazione e opposizione esistano ancora oggi. Oggi si parla infatti di subculture urbane giovanili che, dal basso, cercano di contrastare la crescente privatizzazione degli spazi e la progressiva scomparsa di quelli pubblici, o ancora prendono voce e agiscono socialmente per denunciare i problemi e le ingiustizie dei margini cittadini. Questi giovani devono rendersi visibili per esistere, e allora perché non cercare una forma di eleganza riconoscibile anche dalle istituzioni, pur mantenendo la sneaker, i jeans larghi, gli elementi simbolici di appartenenza?
Uno degli studiosi più lucidi nel mettere in evidenza la genesi delle subculture, Phil Cohen, ha individuato tre elementi fondamentali che caratterizzano, distinguono e danno forma alle azioni sociali dei gruppi culturali: il contesto familiare, il territorio e il sistema economico. È l’intreccio di queste tre sfere – l’intimità degli affetti, il senso di appartenenza a un luogo, le possibilità (o le mancanze) con cui si nasce – a plasmare nuove forme culturali. Quando questi legami si spezzano o si riconfigurano, si aprono nuovi spazi identitari.
E in effetti, dopo la Seconda guerra mondiale, la trasformazione sociale ed economica ha generato tutta una serie di nuove espressioni culturali. I giovani si sono ritrovati al centro di un processo inedito: più benessere, più tempo libero, più accesso al consumo e all’istruzione. Ma anche più disorientamento, più aspettative, più distanza con le generazioni precedenti. In quel vuoto si sono formati nuovi linguaggi: musicali, estetici, simbolici. E nuove comunità.
Cos'è la controcultura che la subcultura non è?
Subculture e controculture nascono entrambe da un senso di crisi nei confronti della cultura dominante e di quella madre, da un mancato riconoscimento nei valori di riferimento. Ma mentre la subcultura si sviluppa dalla classe operaia, la controcultura nasce all’interno della classe borghese — una classe che, per quanto venga contestata, resta il punto di partenza per chi ne fa parte.
È proprio questo che rende le controculture degli anni ’60 così dirompenti: hanno portato una crisi profonda dentro il tessuto sociale, opponendosi a un sistema di cui erano parte integrante per via della loro origine di classe. E allora: quella cultura dominante, a chi parlava ancora?
Un esempio interessante è quello dei movimenti studenteschi e universitari del ’68, che iniziarono a mettere in discussione il sistema di valori dell’università, ma anche della società in generale. Un movimento che non nasceva certo dalla classe operaia, ma da una borghesia colta e relativamente benestante, capace di garantire ai propri figli l’accesso all’istruzione superiore. Pasolini lo sottolineò con una frase tagliente e celebre: una “rivoluzione dei figli di papà che giocavano con i soldi del padre”. Forse provocatoria, certo, ma utile a farci riflettere.
Perché è vero: quei ragazzi non mettevano in discussione un mondo estraneo, ma il proprio. Contestavano dall’interno, portando con sé un linguaggio carico di significati politici e ideologici. E lo facevano con forza, occupando le università, scrivendo, parlando, manifestando. Una cosa è salire su un palco o scendere in piazza per rivendicare un nuovo ordine, un’altra è agire socialmente come fa la subcultura, ogni giorno, nei margini, attraverso i codici – spesso silenziosi, talvolta violenti – delle subculture.
Ma attenzione: nonostante i mezzi e i linguaggi diversi, in fondo, il desiderio era simile. Che si trattasse di slogan scritti sui muri o di risse nei sobborghi, in entrambi i casi c’era la volontà di affermare dei valori, di resistere, di esistere. Pensiamo, ad esempio, alle violente aggressioni messe in atto da alcuni gruppi Skinheads contro omosessuali e immigrati pakistani. Azioni terribili, che rivelano qualcosa: da un lato la difesa (distorta) di una certa idea di mascolinità tradizionale in cui i membri del gruppo si riconoscevano; dall’altro, il rifiuto della presenza di chi veniva percepito come “altro” – per cultura, per reddito, per origine.
Un elemento chiave che distingueva subculture e controculture, dunque, era proprio la classe sociale di provenienza. E questo non è un dettaglio, perché la classe influenza le modalità con cui si agisce, i codici che si usano, persino il modo in cui si è narrati. Le subculture, nate perlopiù nei quartieri popolari, agiscono soprattutto sul piano sociale. Per questo spesso vengono rappresentate in modo negativo, deviante, pericoloso. Le controculture, invece, con un maggiore accesso agli strumenti culturali e comunicativi, assumono un tono più ideologico e politico. E raramente, guarda caso, vengono percepite come minacciose.
Questo ci dice molto sui pregiudizi, senza tempo, della nostra società: tendiamo a giudicare persone e gruppi sociali più in base alla classe, allo stile, all’appartenenza, che al contenuto delle loro azioni e rivendicazioni.
La controcultura non è scomparsa, si è trasformata
La cultura, per fortuna, si trasforma nel tempo, seguendo i cambiamenti della società e delle voci che la abitano. E così, come cambia la cultura, cambiano anche i gruppi sociali che la rappresentano nelle loro azioni quotidiane.
La controcultura degli anni ’60 non è scomparsa: si è frammentata. Secondo gli studi del CCCS, si possono individuare due grandi strade che ha intrapreso. Una, più marcatamente politica: “mi oppongo a questa società e la voglio cambiare”, forme che alla fine si traducono nel moderno attivismo di protesta. L’altra, invece, è una strada più individualistica, alternativa e utopica: “mi oppongo a questa società e mi costruisco una vita a parte”.
Le rivolte e le manifestazioni non mancano nemmeno oggi. Pensiamo ai movimenti per il clima, formati in gran parte da giovani consapevoli e motivati, che rivendicano una società meno consumistica, meno basata sulla produzione incessante, più attenta al rispetto della natura e all’uso responsabile delle sue risorse.
Ma va sottolineato che questi giovani – e io stessa mi ci includo – fanno parte di quel sistema capitalistico che criticano, un sistema che ti plasma, ti sostiene e allo stesso tempo ti vincola. Uscirne è complesso, perché l’economia e la cultura dominante permeano ogni aspetto della nostra vita quotidiana, e – come già accaduto ai movimenti del passato – tende ad assorbire anche le spinte più radicali per neutralizzarle. Da qui la vendita di borracce, agende fatte di bucce di mela, oggetti a doppio uso, che servono a dire a quel gruppo sociale una bugia: “Vi abbiamo ascoltato, vi accettiamo”, senza alla fine eliminare il problema dalla radice – la continua produzione e uso di risorse.
La lotta che vediamo oggi non è quindi una ribellione da fuori, ma una rivendicazione che nasce dall’interno, dalla consapevolezza delle contraddizioni e delle ingiustizie di questo modello economico. È una richiesta di cambiamento che assume una dimensione politica e istituzionale, con l’obiettivo di orientare la società verso un’etica nuova, più equa e sostenibile.
Una resistenza che non vuole distruggere, ma rinnovare, e che ci ricorda quanto sia difficile, ma necessario, immaginare un futuro diverso.
Questi movimenti culturali ci hanno dimostrato che i giovani possono cambiare la società, rinegoziandola, rielaborando o negando i suoi valori. Le subculture, e così le controculture, sono questo: tentativi di dare senso all’esistenza quando i codici dominanti e di classe non bastano più.
E in un mondo che tende a uniformare, a neutralizzare ogni differenza, queste culture “altre” sono un segnale prezioso. Ci ricordano che esistono molte forme per dire chi siamo e cosa vogliamo.
Beatrice Carrara è storica dell’arte e studentessa magistrale in "Comunicazione del patrimonio" nel corso "Valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale" presso l’Università degli Studi di Bergamo.