Fashion Art: l’estetica rivoluzionaria di Flavio Lucchini
di Chiara Ferella Falda
La moda può essere arte? Infiniti sono i valori che il "vestito" comunica. È lo specchio della cultura, della societàà, della vita, di oggi, di ieri, di sempre. Apre la creativitàà, stimola la fantasia, regala emozioni, porta bellezza. Proprio come l'arte. Vi ho dedicato tutto il mio tempo. Cogliendone i messaggi misteriosi e trasformandola in sculture monumentali, totem urbani, reperti fashion, ingenui simulacri, oggetti religiosi, riflessi di contemporaneità.
Flavio Lucchini
“Il destino” è il titolo dell’autobiografia di Flavio Lucchini, ma in realtà il destino e la fortuna hanno poco a che vedere con la sua straordinaria storia. Lucchini è un self-made man che che ha riscritto le regole dell’editoria e della creatività, guidato non dalla ricerca di denaro o potere, ma da un’ambizione più profonda: quella di esplorare e dominare il linguaggio della moda e dell’arte contemporanea con il coraggio visionario e l’audacia di chi sfida costantemente i propri limiti.
Nato nel mantovano da una famiglia contadina di umili origini, studia disegno, frequenta Brera e il Politecnico di Venezia, che deve ben presto abbandonare per mantenere la famiglia, insegnando disegno. Giovanissimo e ancora sconosciuto, entra al Corriere della Sera come grafico, dove si fa notare per le sue idee avant garde da Dino Buzzati che gli affida l’immagine di Amica (1962). Fu una vera rivoluzione, a partire dalla prima copertina con Sofia Loren (allora travolta dallo scandalo di bigamia con Carlo Ponti) e dalla introduzione di molti spazi bianchi nella grafica, mai visti prima d’ora.
La nascita di Vogue Italia
Poco dopo, Lucchini attira l’attenzione da Condé Nast America che lo incarica di progettare l’edizione italiana della testata di moda più famosa del mondo, il mitico Vogue. Per nulla intimidito, capisce che quella è la sua grande occasione. Decide sin da subito di rompere gli schemi, evitando di seguire il percorso tracciato dall’edizione americana, per creare qualcosa di totalmente nuovo e audace. Osa, libera la donna, capace di captare il cambiamento insito nella società. Una donna che non vuole più essere il bel cigno da esposizione alla Truman Capote, ma desidera affermarsi nella società per il proprio valore e non per il cognome del marito. Vuole indossare abiti certo favolosi ma scegliere silhouette più moderne, “sarti” non inflazionati, e che desidera portare i capelli non più in elaborate acconciature con finti toupet, ma morbidi, pratici come si conviene ad una donna emancipata e indipendente.
Certo sono i favolosi anni ’60 che hanno prodotto irripetibili fermenti sociali e culturali, in cui il cambiamento era la nuova linfa creativa, ma Lucchini è stato tra i primi a cogliere questa rivoluzione nell’editoria di moda, e la sua straordinaria capacità di interpretare i tempi con largo anticipo lo ha accompagnato per tutta la vita.
Dopo Vogue arrivano altre testate di successo, dove osa ancora di più, soprattutto con L’Uomo Vogue. Con il suo pupillo Oliviero Toscani vola in America per raccontare il fenomeno dei jeans e vive in un villaggio di cowboy; utilizza Andy Warhol e Yves Saint Laurent come comuni modelli in servizi di moda epocali, sempre con un taglio rivoluzionario. Ad Harlem dove i neri stavano incarnando una nuova estetica che avrebbe influenzato la moda di tutto il mondo, ritrae il leader dei Black Panther di schiena, in una copertina che farà la storia. Chi mai prima di allora aveva pubblicato anziché un volto, una nuca? Significava non attribuire a una sola persona una tendenza diffusa e fece così tanto scalpore che Vogue Italia non fu distribuito negli Usa per paura della reazione che avrebbe potuto scatenare.
Dalle pagine di Vogue e L’Uomo Vogue lancia gli stilisti di domani, a cominciare da un giovanissimo Giorgio Armani, sul cui talento per primo ha scommesso, tanto da creare il logo che ancora oggi è simbolo della casa di moda.
La rivoluzione di “Donna”
La rassicurante e potente confort zone di Vogue ad un certo punto non gli basta più. A sorpresa, e con non poco clamore, Lucchini lascia la Condé Nast a fine anni ’70 per un incontenibile voglia di libertà e sperimentazione, per alzare la posta in gioco, rappresentare ancora una volta la moda come mai nessuno aveva fatto. Questa volta in veste di editore, fonda Donna insieme alla moglie Gisella Borioli. Se la moda traduce desideri e aspirazioni, gli anni ’80 si presentano come una sfida eccitante come non mai, far esplodere quel Made in Italy che lui stesso aveva contribuito a creare. La grafica è sconvolgente nel senso che travolge tutte le regole e le gabbie rigide in cui era imprigionata. Decide di non utilizzare i grandi fotografi dall’estetica già definita ma di scoprire e scommettere su nomi emergenti, quelli che possiedono quel fuoco nello sguardo che lui ricerca, nomi che diventeranno le star della fotografia di domani. Oltre al fedelissimo Oliviero Toscani, Giovanni Gastel, Fabrizio Ferri solo per citarne alcuni. Alle prime top model che tutti si contendono, contrappone nomi nuovi, modelle italiane o anche donne comuni, meno bambole, più intellettuali, più vere e per questo più seducenti.
Anche la scelta dei contributor è contro corrente: se la moda diventa un linguaggio creativo che catalizza i desideri della società e traduce in modo più immediato anche l’economia, la politica, l’attualità, sono Gillo Dorfles, Ettore Sottsass, Francesco Alberoni e tanti altri intellettuali, economisti, artisti e sociologi che scrivono su Donna. Le tendenze non sono quelle già esplose che si trovano sulle altre testate. Gli stilisti sono tenuti a battesimo, lanciati, sostenuti prima che diventino main stream. Il design si intreccia con la moda, con inserti speciali che raccontano la casa in modo sorprendentemente nuovo: pezzi di arredamento trattati come vestiti e vestiti che diventano opere d’arte o di art design. E ancora una volta con coraggio e lungimiranza, vince. Nonostante l’ostracismo di Condé Nast che non gli perdonava il “tradimento”, Donna arriva a vendere più del rivale Vogue, e tuttora si studia come case history nelle scuole di moda.
Il Superstudio
A fine anni ’80 all’apice del successo lascia tutto, rifiutando incarichi internazionali di grande prestigio. Per tanti una scelta incomprensibile. Non prima però di aver fondato il secondo Superstudio con Gisella. Il primo, il Superstudio 13, era già nato nel 1983 come risposta ad una necessità che mancava in Europa, al servizio del mondo dell’editoria e della pubblicità. In una zona, allora periferica di Milano, quella che sarebbe diventata la famosa zona Tortona, rileva una fabbrica di lampadari e la trasforma in 13 studi fotografici che avrebbero fatto la storia della fotografia. In breve tempo, quella che era sembrata a tutti una follia (La moda? In periferia?!!!), diventa un hub di immagine dove i più grandi fotografi del mondo, le agenzie di modelle, i servizi di post produzioni, le scuole di giornalismo, si coagulano attorno, creando un quartiere animato, glamour, internazionale. Poi arrivano Armani, Tod’s, Zegna, gli show-room, le sfilate, le gallerie d’arte, i musei, gli art hotel…
Il successo della zona viene consolidato nel 2000 con Superstudio Più, in via Tortona 27. La fotografia aveva il suo tempio, ma le grandi produzioni televisive e video, i grandi eventi di comunicazioni e presentazioni prodotto, le sfilate internazionali ancora non avevano un luogo moderno e attrezzato, personalizzabile con allestimenti spettacolari che fossero di volta in volta sempre diversi, e in cui gli art director potessero dar sfogo a tutta la loro creatività. La formidabile coppia Lucchini- Borioli acquista la General Electric e trasforma lo spazio industriale in una cittadella della comunicazione avanzata.
Ma aldilà dei successi imprenditoriali importanti, Lucchini innamorato anzi drogato di moda non si riconosce più nel sistema che sta uccidendo la creatività e quella libertà di espressione totale che avevano caratterizzato le decadi precedenti. Gli stilisti diventano brand, e forse aveva già intuito che la moda stava diventando finanza, in mano a pochi poli e fondi privati. Si affaccia sulla scena il minimalismo, l’ugly chic.
“La Moda non è più di moda” (cit. Lucchini). Non è più sogno, desiderio o per lo meno non ha più quella capacità camaleontica di cambiare la donna e trasformarla in un essere completamente diverso, quasi divino. È più omologante, al servizio delle direttive del marketing.
Al tempo stesso è fortissimo il desiderio di tornare al suo primo amore, l’arte. Dai primi anni ’90 disegna e dipinge ossessivamente. Sfilate, silhouette, parade di modelle… Poi passa alla scultura. Il fil rouge di tutta la sua produzione non può che essere la moda. Quel desiderio di trasferire nella materia quel brivido, quel sogno che ogni abito ha suscitato nella sua memoria.
Dall’abito alla Fashion Art
Mai nessuno prima di Lucchini aveva raccontato la moda, attraverso pittura, scultura, fino ad arrivare ai digital painting. Le mostre di moda erano e sono tuttora soprattutto mostre di vestiti, retrospettive di questo o quello stilista. Qui l’operazione è totalmente diversa. Non è nostalgica, non è didattica, non è didascalica.
Per molti critici Lucchini ha inventato la Fashion Art. Innanzitutto si vuole innalzare la creatività degli stilisti al pari di quella dei grandi artisti. Gli abiti sono in molti casi delle opere d’arte, delle sculture tessili che meritano di stare nei più grandi musei internazionali. Cosa che avviene all’estero, ma ancora molto poco in Italia. Lo stesso Louvre, icona dell’arte mondiale, per la prima volta ospiterà nel 2025 una grande mostra sulla moda en correspondance con le sue collezioni d’arte.
Il primo livello di comprensione delle opere di Lucchini ci insegna questo. La moda non è quella cosa, sciocca, effimera, frivola ma è una cosa seria, con implicazioni sociali, economiche, politiche, sociologiche straordinarie.
La seconda operazione che fa Lucchini trascende la moda stessa. I suoi Dress Totem, sono abiti totemici, sculture di piccole o grandi dimensioni in acciaio corten, materiale ancora relativamente poco conosciuto negli anni ’90, con la sua ruggine cangiante. Sono abiti contemporanei che diventano quasi degli idoli primitivi, o pezzi di design. Qui l’abito è una suggestione, un punto di partenza e si trasforma in altro. Il segno si trasfigura, diventa idolo, simbolo, metafora immortale.
La metamorfosi è completa quando il Totem si ricopre di foglia d’oro. L’idolo primitivo diventa divinità splendente, l’età del ferro si mescola all’età dell’oro. L’abito divinizza la donna e la scultura fissa per sempre il potere della moda. Trasformazione, bellezza, eternità.
Ricerca di immortalità che è ancora più evidente nei Dress Memory, bassorilievi bianchi in gesso o in resina (fiberglass per la precisione) che raffigurano corpetti, scollature, plissé, volant, jabot, fiocchi, drappeggi, ovvero le lavorazioni più sofisticate del tessuto. La stoffa è solidificata con un materiale indurente usato in scenografia, poi ricoperta di gesso, che serve per ricavare il calco in gomma poi riempito da una colata di resina. L’opera viene poi dipinta di bianco assoluto oppure rimane in gesso naturale. A volte i Dress Memory sono creati con materiali insospettabili (oggi si direbbe di riciclo): cannucce, tappini, o addirittura con materiale estruso da una macchina per fare la pasta.
I bassorilievi in resina bianca sono laccati a lucido con un procedimento inusuale: sono tutti dipinti con vernice catalizzata a forno in carrozzeria, come avviene per le automobili. Il titolo originario, poi cambiato nel più immediato Dress Memory, è “Reperto fashion n°…”, quasi dei fossili di abiti impressi, anziché nella pietra delle ere glaciali, nella resina o nel gesso. Lucchini ha voluto rendere eterni quegli abiti e quelle lavorazioni attraverso le sensazioni che ha provato quando li ha visti sfilare per la prima volta o fotografati attraverso i suoi giornali. Non è importante rintracciare a quale stilista appartenga quel corpetto, quel fiocco, anche se si intuisce spesso l’ispirazione sottostante, che sia una camicia di Ferrè, un plissé di Miyake o una giacca di Armani. È la memoria, quell’essenza divina sprigionata dall’abito che Lucchini vuole fissare per sempre. Vestiti che non andranno mai fuori moda, perché sono pezzi d’arte, unici, irripetibili, trasformati dall’artista in visioni quasi mistiche.
Con i colorati Dress Toys il totem diventa un giocattolo, dal vago sapore futurista, quasi come se fossero composti dai cubetti colorati che usavano in passato i bambini per le costruzioni, antenati del moderno Lego. L’abito avvicina al divino ma è anche un gioco, dove osare, trasformarsi, travestirsi.
La ricerca di Lucchini continua per oltre 30 anni. Si reca tutti i giorni diligentemente nel suo Atelier al Superstudio Più e crea febbrilmente, sempre alla ricerca del passo successivo, con la frenesia di raccontare, fissare, sperimentare, trasferire forme, suggestioni, linee. Arrivano le Dolls, le “bambole” ultra pop in resina colorata, ragazzine ingenue e sfrontate, donne non ancora adulte, che giocano con la propria immagine; i Ghost, le grandi sculture in resina metallizzata dove il corpo è evaporato, ma rimane il vestito come esoscheletro glamour; le sculture monumentali in gesso bianco Haute Couture; i digital painting dove il mouse si sostituisce al pennello; le Faces, bassorilievi in gesso rinforzato dove surrealismo, astrattismo, gigantismo, cinema, pubblicità, chirurgia estetica si esprimono attraverso un solo dettaglio somatico. E ancora i Flowers, fiori destinati a non sfiorire mai; le Icons dove calciatori e star del cinema diventano angeli, demoni o moderni gladiatori; i 100 ritratti Hair, le ultime opere di Lucchini dipinte nel 2023 con una miriade di tecniche diverse (pastelli, pennarelli, colori ad olio, acquarelli, china, evidenziatori, tempere ecc.).
Un caleidoscopio pop, che non guarda mai al passato, ma al futuro.
Questa sua visione sempre anticipatrice è evidente soprattutto nelle opere Burqa, dipinti e digital paintings, con cui partecipa alla Biennale di Venezia nel 2011, con una mostra personale collaterale e all’interno del Padiglione Italia allargato voluto da Vittorio Sgarbi. Con straordinaria preveggenza già nel 2009, Lucchini svolge una indagine della società contemporanea attraverso l’abito, nel contrasto del burqa con il mondo moderno. L’arte si interfaccia con la moda, con la grafica, con la pubblicità, con la fotografia, con il sociale. Donne velate e misteriose, che apparentemente tutte uguali desiderano invece esprimere la loro individualità, il loro essere donne, posando su un set di Vogue o per una grande griffe della moda. E ancora moltitudini impressionanti di donne sotto il burqa afgano, il niqab o l’abaya mediorientale. Opere sconcertanti che illuminano, che pongono il fanatismo in contrasto con l’insopprimibile libertà, simboleggiata dalla moda.
Il FLA FlavioLucchiniArt Museum
Si susseguono numerose personali, collettive, premi, fino a quando le oltre 1000 opere di Lucchini non potevano più essere contenute nei magazzini e i tempi erano maturi per la creazione di un Museo, uno spazio espositivo dinamico che ospitasse sia mostre temporanee che l’imponente e variegato archivio. Nasce così nel 2021 il FLA FlavioLucchiniArt Museum, al Superstudio Più, proprio negli spazi che sono stati il suo Atelier per oltre 30 anni e poi nel basement sotterraneo, un dedalo di 18 stanze e corridoi che furono i vecchi rifugi antiaereo della General Electric. L’architettura industriale dal sapore brutalista è stata rispettata, e solo consolidata. Ogni stanza è una sorpresa, diversa dalla precedente, e racconta una storia. Dal bianco assoluto del gesso e della resina, si passa al metallo argentato a specchio o arrugginito, all’oro, fino alla esplosione di colori delle opere più pop. Dipinti, sculture grandi e piccole, maquette, disegni, lavori preparatori, video, libri e cataloghi, grafiche, stampi, calchi… Aperto tutti i pomeriggi, accoglie i visitatori (molti dei quali stranieri) che escono quasi storditi davanti a quella monumentale produzione così eterogenea, stupiti dalla freschezza di questo ragazzo di 96 anni che per il destino “doveva fare il contadino e ha incontrato la moda” (cit. Lucchini).
No, il destino, il fato, c’entra davvero poco in questa storia.
Dopo la laurea in diritto internazionale e una esperienza come producer di programmi televisivi di moda e costume per il pubblico americano (Fashionrama, Today in Fashion, Portrait, Oscar della Moda - prima serata RAI 1), Chiara Ferella Falda è stata per 20 anni Direttore Comunicazione e Progetti Speciali di Superstudio a Milano, specializzandosi nella ideazione e comunicazione di mostre ed eventi di arte contemporanea, design, moda e fotografia. Partecipa attivamente alla crescita del Fuorisalone di Milano con il Superdesign Show di Superstudio, sviluppando un particolare interesse verso i creativi giapponesi. Dal 2021 inizia una carriera indipendente come consulente strategica per la comunicazione, curatrice, producer e art dealer. Dal 2005 è General Manager della galleria MyOwnGallery di Superstudio e dal 2023 Responsabile del FLA FlavioLucchiniArt Museum. È ambasciatrice del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto. E’ producer del progetto internazionale e nascente fondazione The Plot dell’artista e imprenditore Giangiacomo Rocco di Torrepadula.