Dalla Legge Ronchey al Registro ICC: trent'anni per un riconoscimento
Con il Decreto del 10 luglio 2025, recante “Registro delle imprese. Sezione speciale per le imprese culturali e creative” si conclude l’iter legislativo di una normativa che introduce in maniera definitiva nel nostro ordinamento questa particolare fattispecie di impresa.
Un percorso iniziato con l’approvazione della Legge 27 dicembre 2023, n. 206, che definisce e include in questa categoria qualunque ente, indipendentemente dalla sua forma giuridica, che svolga in via esclusiva o prevalente le attività di ideazione, creazione, produzione, sviluppo, diffusione, promozione, conservazione, ricerca, valorizzazione e gestione di beni, attività e prodotti culturali.
Ma su questo approdo torneremo più avanti. Proviamo ora a riscostruire la storia di un processo che ha avuto una gestazione ultradecennale.
Per la prima volta si è cominciato a porre il tema con una serie di azioni intervenute all’inizio degli anni 90 sia sul piano normativo che su quello della strutturazione del mercato.
Un momento cruciale è l’entrata in vigore della legge Ronchey (la 4 del ’93) che introduce la possibilità per aziende private di gestire i “servizi aggiuntivi” per i musei e i luoghi della cultura di proprietà dello Stato.
Il provvedimento, seppure limitato all’ambito sopra enunciato, ha una doppia valenza: da un lato apre per la prima volta ai privati la possibilità di fare business con beni culturali, con beni pubblici, dall’altro introduce la logica per cui i luoghi più sacralizzati della cultura debbano dotarsi di servizi che rendano più gradevole la visita e creino valore aggiunto anche in termini economici.
Detto in altre parole si da atto che anche quella legata alla fruizione culturale è un’attività che deve acquisire modelli manageriali, sia con l’immissione del privato nel perimetro dello Stato sia con l’acquisizione di capacità imprenditoriali da parte del pubblico: si comincia a ragionare in termini di marketing culturale, a confrontarsi con le regole di mercato; entra così a far parte del dibattito la coppia, fino ad allora sconosciuta, pubblico-privato. Formula che, come vedremo, si presterà spesso ad un uso retorico e, a volte, fonte di confusione.
Lo sviluppo di queste novità normative porterà in seguito al passaggio dall’affidamento di Servizi aggiuntivi a quello della gestione tout court.
Parallelamente succede un’altra cosa. A seguito della nuova consapevolezza del ruolo degli enti locali nel governo di tutti gli ambiti della vita sociale, la consolidata esperienza degli assessorati alla cultura maturata nel decennio precedente, la necessità di reperire risorse e acquisire know how, comuni, province e regioni sono spinte a concepire nuove forme di gestione dei beni culturali ma anche di realizzare direttamente iniziative in questo ambito.
La gestione di musei, teatri, auditorium, la produzione di eventi (cartelloni estivi, festival ecc.) si scontra però con le rigide regole della pubblica amministrazione e limita fortemente la capacità di reperire risorse aggiuntive a quelle dei bilanci pubblici.
Un caso di tutta evidenza è quello delle sponsorizzazioni, che costituiscono un elemento essenziale nel conto economico di qualsiasi azienda che operi in campo sportivo, sociale e culturale; queste non possono essere attivate in forma diretta: eventuali somme conferite vanno a finire nel calderone della finanza pubblica senza la possibilità di instaurare quel rapporto sinallagmatico che è alla base della fattispecie contrattuale.
Ma vi sono poi altri problemi: la gestione degli appalti, l’allocazione di personale, soprattutto quello qualificato, con forme contrattali che riconoscano le specifiche professionalità e consentano la necessaria elasticità di impiego; fino alla riconoscibilità di figure dirigenziali che possano dialogare con analoghe istituzioni, anche in campo internazionale.
Vengono quindi individuate strutture che, se pur riconducibili ad un ente pubblico, sono dotate di una propria personalità giuridica e rispondono a regole di carattere privatistico, sul modello delle grandi aziende di servizi, cosiddette “partecipate”.
Una nuova forma d’azienda viene sperimentata, e ne sopravvive ancora qualche esempio, è appunto quella dell’”azienda speciale” (tale è ad esempio l’Azienda Speciale Palaexpò, istituita dal Comune di Roma). Questa ha tutte le caratteristiche di un soggetto privato, può scegliersi il contratto di lavoro per i dipendenti, stabilire rapporti diretti con i fornitori, svolgere gare d’appalto, gestire in autonomia la programmazione artistica, sottoscrivere contratti di sponsorizzazione e ha un proprio Consiglio d’Amministrazione.
Con alcuni limiti però. Si tratta di un ente atipico, istituito da una pubblica amministrazione che ne è l’unica proprietaria, non può quindi aprirsi alla partecipazione di altri soggetti, pubblici o privati, i suoi organi sono nominati dall’ente istitutore e decadono con il decadere di questo, agisce su contratto di servizio e, a questo titolo, deve far quadrare il bilancio con le risorse allocate dall’amministrazione controllante. Non Sembra bastare questa formula per rispondere alle esigenze del crescente mercato della cultura.
Si utilizzano in parallelo altre figure, come le consuete società di capitali, Società a Responsabilità Limitata e Società per Azioni. Sempre usando come scenario esemplificativo quello della Capitale, risponde al primo caso la società di servizi Zetema (divenuta indispensabile per fornire personale integrativo nei musei comunali e per il supporto tecnico-amministrativo nella realizzazione di eventi) che però è concepita come in house del Comune, che ne è l’unico socio, e agisce anch’essa su contratto di servizio. Solo grazie alle recenti modifiche legislative gli è consentito di operare sul mercato, fino al 20% del proprio fatturato.
Al secondo caso è riconducibile Musica Per Roma, nata come SpA, con un sostanzioso apporto patrimoniale della Camera di Commercio, che fu poi oggetto di una trasformazione in fondazione.
Quella delle fondazioni destinate alla gestione di beni culturali o alla produzione di eventi rappresenta in un certo senso una svolta.
Dovuta alla interpretazione creativa del notaio Bellezza di Milano, si impose come modello quello della “fondazione di partecipazione, Per sua natura una fondazione trova il suo ubi consistam nel fondo che ne è all’origine, non prevede la possibilità di avere soci e non può distribuire dividendi, per il resto opera come un qualsiasi soggetto privato, secondo le regole del Codice Civile.
La trovata del notaio milanese consisteva nel prevedere, nello statuto, la possibilità di far partecipare ai fini sociali della fondazione, persone fisiche o giuridiche nel tempo determinato dal loro apporto (finanziario, tecnico o altro), avendone in cambio un riconoscimento negli organi di gestione, finanche nel Consiglio di Amministrazione.
Tra i primi ad adottare questa nuova forma fu proprio lo Stato che, con il Decreto Legislativo 29 giugno 1996 n. 367 dispose la trasformazione degli Enti Lirici in Fondazioni di diritto privato, rivisitandone l'assetto con il Decreto Legge 30 aprile 2010, n. 64. Le Fondazioni lirico-sinfoniche presenti sul territorio nazionale sono quattordici.
Da allora quello della fondazione di partecipazione è diventato lo strumento più utilizzato dalle pubbliche amministrazioni. Non un ente pubblico, non una società, ma una figura giuridica di diritto privato, senza fini di lucro, aperta alla partecipazione di privati con carattere temporaneo, e un saldo controllo nelle mani dei fondatori.
Quasi tutte le grandi istituzioni sono costituite secondo questa linea: Maxxi, Museo Egizio, Biennale, Triennale, Quadriennale, Musica per Roma, i Musei di Brescia e quelli civici di Venezia, il Madre di Napoli, solo per fare alcuni esempi.
Anche le fondazioni che non prevedono partecipazione pubblica vengono rinvigorite da questi esempi e ne nascono in continuazione di nuove.
Naturalmente tale tipo di “azienda” non esaurisce il quadro, a fianco di esse troviamo cooperative, associazioni (sempre più presenti e diffuse, grazie anche al riconoscimento del cosiddetto Terzo Settore), consorzi, e forme organizzative a carattere comunitario.
Arrivati a questo punto del racconto diviene necessario affrontare e tentare di sciogliere il nodo che caratterizza una delle allocuzioni più usate e abusate, quella del citato rapporto pubblico-privato.
Sotto questa voce vengono infatti a ricadere fattispecie assolutamente diverse, creando, come si è già detto, ampi margini di confusione.
Partiamo proprio dalla elencazione appena fatta delle forme giuridiche: con esclusione delle aziende speciali e delle fondazioni istituite con una legge, per tutte le altre a quelle in house alla pubblica amministrazione o da questa partecipate, ne corrispondono altrettante totalmente private, vuoi come fondazioni o associazioni no profit, vuoi come società operanti sul mercato con un predominante fine di lucro.
Le une e le altre (pubbliche e private) svolgono attività analoghe, rispondono (o dovrebbero rispondere) ad analoghe logiche gestionali, hanno spesso per oggetto beni o finalità simili se non uguali. Sempre più spesso gli ambiti di azione sono gli stessi o sono tra loro integrati. Si pensi per esempio ad aree archeologiche o naturali date in gestione a società o cooperative, o servizi appaltati a privati da soggetti pubblici o semi-pubblici.
Ma tutte, ormai, costituiscono tasselli di un’unica trama in cui c’è comunque una finalità pubblica da perseguire e una capacità imprenditoriale che deriva dall’esperienza privatistica anche quando è affidata al pubblico.
Di uno degli aspetti del rapporto tra pubblico e privato si è detto, quello delle sponsorizzazioni. Cominciamo col dire che le sponsorizzazioni non sono una prerogativa esclusiva di soggetti privati, anzi, insieme alle banche sono proprio le grandi aziende pubbliche a garantire gli apporti più significativi. Privatistico è invece il rapporto contrattuale che si stabilisce tra sponsor e sponsee; ma quando si inizia a realizzare questo tipo di accordi non esistono regole certe e, soprattutto, i casi più importanti hanno più che altro un carattere di pubbliche relazioni: la pratica di contribuire alla vita sociale e culturale di una città, di una regione ha spesso come scopo solo quello di acquisire un rapporto privilegiato con i vertici politici. La conseguenza è che, quando il legislatore metterà mano ad una regolamentazione, finirà per normare lo statu quo, cioè considerare la sponsorizzazione alla stregua di una elargizione fatta non per ottenere un beneficio commerciale ma per “acquistare” benemerenza nei confronti del ricevente. In questa logica distorta rientra - ma non solo - l’imposizione di bandi di gara per l’istaurazione di un rapporto che per funzionare deve necessariamente essere oggetto di trattative dirette e fondarsi su una vera e propria partnership, in cui convergano e si misurino i rispettivi interessi. Il risultato, ma lo vedremo anche riguardo ad altri aspetti di innovazione normativa, è che la possibilità di attrarre risorse da parte della P.A. si è andata progressivamente restringendo: è il classico esempio di come si crede di poter vedere le cose con un occhio pubblico mettendo mano a una materia che si fonda su esigenze di tipo privato.
Analogo e parallelo è quello che è avvenuto riguardo ad altre forme di donazioni liberali o cosiddetto mecenatismo. Tralasciamo qui un’analisi della struttura e dei risultati dell’Art Bonus, che meriterebbe una trattazione a parte, limitiamoci a sottolineare il gap culturale che è alla base di tutti i provvedimenti tendenti a favorire l’apporto di risorse private. Cioè l’idea che il denaro dei privati possa essere sostitutivo di quello impiegato del pubblico: perfino nel caso più raro, quello in cui il donatore non intraveda un profitto per la sua azione, ma soltanto una gratificazione, l’acquisizione di uno status, il donatore compie comunque un investimento e gli investimenti vanno dove c’è maggiore prospettiva di un ritorno. Il potenziale investitore sceglierà dunque di intervenire dove è maggiore l’investimento della controparte, non dove c’è carenza e quindi la sensazione che ci sia scarso interesse. Per avere più risorse private lo Stato, o chi per esso, deve investire di più.
Vi è infine quello che può rappresentare il caso più interessante e produttivo, quello del partenariato. Il caso cioè in cui pubblico e privato si uniscono e collaborano in un progetto destinato a produrre utili per entrambi.
Ha suscitato molte aspettative il nuovo Codice degli Appalti, (D.Lgs. 36/2023) che agli articoli 151, 174 e 185 prevede la possibilità di “forme speciali di partenariato”. Ora il partenariato in senso proprio si realizza attivando un processo biunivoco di individuazione di un obiettivo e di coprogettazione. Oltre alla vacuità della definizione di “forme speciali”, la pratica che ne sarebbe dovuta derivare è stata fortemente limitata dalla difficoltà di una contrattazione diretta, dall’incerta sostenibilità economica e da una cultura imprenditoriale di cui la parte pubblica è totalmente priva.
Parallelamente si prevede un’atra, ancora più tipica, forma di intervento privato, quella del project financing. In questo caso è il soggetto privato ad essere proponente, e a tenere a proprio carico gli oneri di progettazione, di realizzazione e di gestione. Restituendo al pubblico la realizzazione di un’opera compiuta o implementata e assicurando una rendita certa per il proprietario del bene.
Le speranze di un’evoluzione in questo ambito sono, in parte, finora naufragate nei flutti della burocrazia e della contraddittorietà delle norme.
Per chiudere questa parte del ragionamento resta ancora da citare un’altra forma di cointeressenza tra le due categorie in esame, quella cioè dei fondi investimento. In molti paesi occidentali esistono fondi di investimento specificamente rivolti al mercato della cultura e ai beni culturali. Si tratta di una attività finanziaria, con finalità dichiaratamente e onestamente speculative, che consentono però di apportare liquidità, ma anche know how gestionale e condivisone dei rischi. Questi soggetti si sono a più riprese affacciati nel nostro Paese, ritraendosene presto di fronte ad uno scenario che, di nuovo, costituisce un terreno minato e irto di ostacoli sul piano delle norme e della burocrazia, tale da scoraggiare qualsiasi intrapresa.
Per completare il quadro è necessario, sia pure in forma sintetica, ripercorrere le tappe dell’evoluzione normativa che ha caratterizzato questo settore.
Il processo che negli anni Novanta ha portato all'esternalizzazione dei servizi prima inesistenti o gestiti direttamente dalle pubbliche amministrazioni, ha avviato una stagione caratterizzata da maggiore agilità e snellezza procedurale. Tuttavia, come si è visto, questo momento di libertà era paradossalmente favorito da una generale incertezza normativa. Le cose cominciano a cambiare nel 2001, con la riforma del titolo V, Parte II, della Costituzione che ha delineato un nuovo quadro nella competenza legislativa tra Stato e Regioni anche in materia di beni culturali, operando a nostro avviso una forzatura dell’art.9 della costituzione che affida alla “Repubblica” il compito di promuovere “lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione “. La riforma divide invece i due ambiti, tutela e promozione, riportandoli entrambi all’interno di un ambito istituzionale, con l’attribuzione della “tutela” alla legislazione esclusiva dello Stato e la “valorizzazione” alla legislazione concorrente regionale. Alla luce di venti anni di sperimentazione la modifica pare abbia solo aumentato il livello di conflittualità e prodotto una esigua attività normativa da parte delle Regioni.
Solo un anno prima il varo del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL) stabiliva la distinzione tra servizi pubblici locali di rilevanza economica e quelli privi di tale rilevanza. Dubbia risultò l’attribuzione dei servizi culturali a una delle due categorie. La giurisprudenza amministrativa mise a più riprese in discussione la legittimità di un provvedimento che, nella presunzione di tutelare la libera concorrenza, prevedeva un regime a doppio binario, predeterminato e non soggetto alla interpretazione dinamica rispetto alle esigenze dei cittadini.
È del 2004, invece, il primo provvedimento complessivo di riordino della materia, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. L’art. 115 del Codice stabilisce che le attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica possono essere gestite in forma diretta o indiretta. La prima è svolta per mezzo di strutture organizzative interne, alle amministrazioni, o affidate a forme consortili, sia pure con un certo grado autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile. La seconda prevede la concessione a terzi delle attività di gestione mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti.
Una novità importante è quella relativa agli “accordi di valorizzazione”, attraverso convenzioni che lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono sottoscrivere con i privati per definire obiettivi di valorizzazione, nonché per elaborare piani strategici di sviluppo relativamente ai beni culturali di proprietà pubblica.
Una netta inversione di marcia, rispetto a queste novità, si riscontra negli anni 2008-2012, giustificata da interventi di contenimento della spesa pubblica. Si tratta di norme di carattere generale, che non hanno tenuto conto della specificità delle istituzioni culturali e delle attività ad esse affidate. Si tratta di vincoli negli acquisti di beni e servizi e un irrigidimento procedurale che ridimensionano notevolmente l’autonomia gestionale. E qui è il vero nodo: enti nati sulla spinta dell’esigenza di dotare questi soggetti di capacità imprenditoriale, vengono assimilati alle pubbliche amministrazioni che li avevano creati per svincolarli dai propri limiti organizzativi. Così i gestori di beni e attività culturali, con personalità giuridica di diritto privato, se partecipati “in qualsiasi forma” dagli enti pubblici, tornano ad essere sottoposti a vincoli pubblicistici e assoggettati a una serie di norme, come il codice dei contratti pubblici o quelle in materia di trasparenza e anticorruzione che ne rendono complicata la gestione.
Un passo in avanti è sicuramente rappresentato dal Codice del Terzo Settore, che include anche gli enti le cui attività hanno a oggetto interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, nonché l’organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale. In parallelo analogo riconoscimento viene operato per le imprese sociali, ai sensi del d.lgs. n. 112/2017. Nel primo caso sono previste forme di co-programmazione e co-progettazione tra le pubbliche amministrazioni e gli enti del Terzo settore, nel secondo la possibilità per lo Stato, le Regioni, gli enti locali e gli altri enti pubblici di affidare a soggetti del Terzo Settore beni culturali immobili per l’uso dei quali non è attualmente corrisposto alcun canone e che richiedano interventi di restauro, al fine di una loro riqualificazione e riconversione. Rimane ancora aperto il problema del coordinamento delle disposizioni contenute nei decreti di riforma del Terzo settore e quelle dei beni culturali.
Sin qui si è dato conto dell’evoluzione del concetto di impresa culturale sia nel dibattito sul settore che sul piano normativo. Ma che ne è di tutte le forme squisitamente private, profit o no profit che popolano questo territorio? Società, cooperative, associazioni, lavoratori autonomi, nonché tutte le sottostanti aziende di filiera.
Il tema, presente già da tempo nelle proposte delle rappresentanze di categoria, è apparso in tutta la sua evidenza durante l’emergenza covid: come individuare e riconoscere i soggetti partecipanti alla costruzione del processo culturale, degni di sostegno nella circostanza. Ma più in generale, chi può essere oggetto di benefici normativi e fiscali nel caso questi vengano emanati?
Per la prima volta le imprese culturali e creative (ICC) vengono citate in modo organico nella Legge di Bilancio 2021 (legge n. 178/2020), senza che questo avesse un seguito sul piano normativo nei tempi auspicati.
È solo nel ’23, con la legge n. 206, cosiddetta per il Made in Italy, che la loro definizione normativa è compiuta. Con gli articoli 25 - 30 del provvedimento si chiarisce il concetto di impresa culturale e creativa e viene prevista l'istituzione di un registro a questa dedicato presso le Camere di Commercio, riconoscendo peraltro l’importantissimo ruolo del concetto di “filiera” anche in questo settore.
Nell’architettura complessiva dell’art. 25 – contenente ai commi da 2 a 5 e 7 i diversi elementi che concorrono alla definizione della platea delle ICC – lo strumento del decreto attuativo viene ad assolvere un fondamentale ruolo di chiarificazione, nella misura in cui è chiamato a tradurre siffatti elementi, nelle modalità e condizioni del riconoscimento della qualifica di ICC.
Viene così confermata l’inclusione nel campo di applicazione delle misure in materia di ICC di tutti i soggetti che svolgano un’attività economica rientrante nel perimetro individuato dalla Legge, a prescindere dalla forma giuridica adottata, compresi pertanto anche i lavoratori autonomi.
Successivamente con il Decreto n. 402 del 28 ottobre 2024 sono state disciplinate le modalità e le condizioni del riconoscimento della qualifica di impresa culturale e creativa nonché le ipotesi di revoca.
È ancora il Decreto n. 460 del 18 dicembre 2024 a istituire l’Albo delle imprese culturali e creative di interesse nazionale: tali enti fanno parte della categoria generale delle ICC e hanno tutti i requisiti previsti dall’art. 25 L. 206/2023 e del citato decreto 402/2024, ma si distinguono in quanto in ragione della loro storia, prestigio e importanza strategica nel settore produttivo e culturale italiano, rappresentano un’eccellenza collegata al territorio nazionale. Tale Albo è istituito presso la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (DGCC) e l’iscrizione in esso è condizione per l’utilizzazione della denominazione “Impresa culturale e creativa di interesse nazionale”.
Arriviamo così all’emanazione del citato decreto del 10 luglio 2025, il quale prevede i requisiti per l’iscrizione nella sezione speciale, destinata ai soggetti qualificati come ICC (secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 1 e art. 4, comma 2 del Decreto n. 402/2024) già iscritti nel registro delle imprese o nel REA e che abbiano dichiarato nei medesimi registri lo svolgimento dell’attività economica, presentando alla camera di commercio competente apposita domanda di iscrizione. A seguito di questa debbono essere verificati la validità delle informazioni contenute nella domanda di iscrizione e attuare, su segnalazione di terzi o d’ufficio, idonei controlli volti ad accertare la validità delle informazioni relative ai requisiti degli iscritti e la permanenza di questi in capo ad essi.
Tale accertamento (ovvero lo svolgimento in forma di impresa, in via esclusiva o prevalente, una o più delle seguenti attività: ideazione, creazione, produzione, sviluppo, diffusione, promozione, conservazione, ricerca, valorizzazione e gestione di beni, attività e prodotti culturali) avviene mediante verifica che il codice ATECO attribuito corrisponda all’attività prevalente esercitata dal soggetto.
L’accertamento del possesso del requisito di cui all’art. 4, comma 3 (ovvero il carattere prevalente l’attività effettivamente esercitata dalla quale deriva, nel corso del periodo d’imposta di riferimento, un volume di affari superiore al cinquanta per cento di quello complessivo), del decreto ICC è invece condotto in base ai dati disponibili nel registro delle imprese e nel REA.
Al riguardo, l’ufficio del registro competente, accertata la completezza e la correttezza formale dell’istanza e previo esito positivo delle verifiche, iscrive il richiedente nella sezione speciale l’ICC nel rispetto del termine di cui all’art. 11, comma 8, del regolamento RI, ossia entro il termine di 10 giorni dalla data di protocollazione della domanda.
L’iscrizione nella sezione speciale comporta il riconoscimento della qualifica di impresa culturale e creativa, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 25 della Legge 206/2023.
Il conservatore del registro delle imprese, ove riscontrasse un esito negativo delle verifiche, è tenuto a provvedere alla cancellazione dell’impresa dal registro entro novanta giorni. L’impresa può trasmettere, entro 15 giorni, all’ufficio del registro competente proprie osservazioni e documentazione, al fine di comprovare il mantenimento dei requisiti per l’iscrizione.
A seguito dell’iscrizione, e in assenza di cancellazione, le aziende possono apporre le diciture «impresa culturale e creativa» e «ICC» nelle comunicazioni sociali e in ogni altra documentazione.
Concludendo, la portata di tale novità, pur avendo un carattere propedeutico e declaratorio fino all’emanazione di provvedimenti specifici che riguarderanno l’intera categoria così come definita, è destinata a produrre effetti di portata persino superiore rispetto alle intenzioni del legislatore.
Non mancano tuttavia ambiti di perplessità, che qui ci limitiamo ad elencare.
Anzitutto la creazione di un doppio registro (quello presso le Camere di Commercio e quello presso il MiC), con caratteristiche diverse, rischia di creare una gerarchia dovuta ad un’azione discrezionale del potere politico.
L’inclusione nell’elenco dei soggetti ammessi di molte aziende manifatturiere (vagamente caratterizzate dal cosiddetto creative driving) non risponde alle aspettative delle organizzazioni di categoria, finendo per assimilare alle ICC imprese che hanno già diverse forme di riconoscimento e rappresentanza, creando una sovrapposizione destinata a determinare ambiti di dubbia interpretazione.
Infine, il riferimento tassativo ai codici ATECO tradisce lo spirito a cui era informata l’istanza di quelle imprese che vedevano nel registro speciale uno strumento più elastico e aggiornato rispetto ad una codificazione rigida e obsoleta, che non tiene conto di una sempre più veloce nascita di figure professionali legate alle crescenti esigenze del mercato della cultura.
Tali preoccupazioni non possono essere celate, ma non inficiano, a parere di chi scrive, l’importanza dell’innovazione che sarà destinata, come sempre succede, ad essere modificata e adeguata alle esigenze che emergeranno nel corso della sua attuazione.
Umberto Croppi è Presidente dell’Accademia delle Belle Arti di Roma. Consulente per la comunicazione e il management culturale, è stato Presidente della Quadriennale d'Arte di Roma, Direttore Generale di Federculture e della Fondazione Valore Italia.
