di Francesca Disconzi

 

La creazione artistica non può essere considerata un atto neutro, poiché riflette inevitabilmente le strutture sociali e le ideologie che la attraversano. Non sorprende si dia per inconfutabile l’assunto secondo cui “tutta l’arte è politica”, ma se si accetta questo presupposto, è allora necessario interrogarsi più a fondo sul rapporto che intercorre tra produzione artistica e potere, ponendo in discussione le condizioni materiali e ideologiche che nutrono il sistema economico e culturale in cui la produzione artistica si sviluppa.

In questo scenario, un’indagine sociologica dell’arte potrebbe addirittura tentare di attribuire a quest’ultima un ruolo chiave nei processi di partecipazione e trasformazione sociale o, ancora, evidenziare il suo ruolo all’interno dei conflitti che attraversano la società. Tuttavia, i miei ragionamenti non vogliono concentrarsi su questo ampio aspetto del discorso, bensì essere circoscritti a una lente attraverso cui si può leggere la Storia dell’arte e la produzione artistica contemporanea: quella della coscienza e lotta di classe, grandi assenti dal dibattito culturale odierno.

Nel corso della storia, diversi artisti attivi nel panorama nazionale – tanto singolarmente, quanto organizzati in forma collettiva – hanno affrontato questo tema da posizioni libertarie, comuniste o anarchiche; dobbiamo ad ogni modo ammettere che spesso si trattava di esperienze sviluppate in un contesto storico profondamente diverso, segnato da una netta polarizzazione ideologica e da una maggiore rappresentanza politica della working class. Ad ogni modo, vi era l’intento comune – a volte didascalico, a volte poetico – di produrre opere o mettere in campo azioni auspicando un cambiamento radicale che passasse prima di tutto dal sovvertimento del potere dato e, conseguentemente, del sistema culturale elitario che lo rifletteva.

Nel (ri)pensare il rapporto che intercorre tra arte e lotta di classe oggi, ho trovato illuminante il saggio di Nicos Hadjinicolaou, Storia dell’arte e lotta delle classi (Editori Riuniti, 1975) la cui ossatura teorica è data dall’assunto che la storia dell’arte dovrebbe essere intesa come “una storia particolare all’interno della storia generale delle lotte di classe”.

Pur riconoscendo la fondamentale autonomia all’arte, Hadjinicolaou denuncia come questa disciplina sia stata per secoli concepita come prerogativa e riflesso di una visione borghese del mondo: una narrazione che di fatto privilegia la figura dell’artista – individuo creatore che nella visione illuminista si sostituisce a Dio – o le specificità geografiche, cancellando inesorabilmente dal discorso la divisione della società in classi e le tensioni ideologiche che ne derivano.

In risposta a ciò, l’autore propone piuttosto una metodologia fondata sulla nozione di “ideologia dell’immagine”, presa in prestito dalla definizione di “stile” che Frederick Antal dà nei suoi testi. Egli definisce questa come la “combinazione specifica di elementi formali e tematici dell'immagine che costituisce una delle forme particolari dell'ideologia globale di una classe dominante”, mettendoci al contempo in guardia di come la produzione artistica rischi di essere unicamente riflesso dell’ideologia dominante.

Non si tratta, tuttavia, solo di un approccio marxista attraverso cui leggere la Storia dell’arte, ma piuttosto di un processo di svelamento delle dinamiche di potere che attraversano e legittimano la produzione artistica contemporanea.

Il testo di Hadjinicolaou prende forma in un’altra epoca, ma ci lascia indubbiamente un’eredità. In un contemporaneo in cui la lotta di classe è largamente assente dalla sfera pubblica e sembra non essere annoverata tra gli interessi intellettuali, la domanda da porsi non è tanto “esistono progettualità artistiche che possano riflettere gli ideali della lotta di classe?” ma piuttosto: “può oggi l’arte coadiuvare processi trasformativi a partire da una rinnovata consapevolezza sui contenuti della lotta di classe?”

Molti obietteranno che si tratti di categorie obsolete, superate; se è vero che l’“orgoglio proletario” ha lasciato spazio alla “vergogna del precariato”, è altrettanto fattuale che l’ideologia dominante - con le sue insostenibili asimmetricità - si traduce in un sistema culturale e nella fattispecie artistico chiuso, coercitivo - se non addirittura propagandistico -  funzionale al potere e al profitto privato: un meccanismo cannibale, nemico agli artisti stessi. Per citare uno sguardo contemporaneo, Hito Steyerl - nel suo Duty Free Art: Art in the Age of Planetary Civil War (Verso Books, 2017) -  lancia un monito preciso: “l’arte contemporanea rischia di essere fumo negli occhi per nascondere un mondo opaco, indecifrabile e ingiusto, una lotta di classe dei ricchi verso i poveri e l’impennata delle disuguaglianze.”

È indubbio che solo attraverso una rinnovata presa di coscienza l’arte può prendere reale consapevolezza dei propri modelli produttivi e distributivi, per potersi affrancare da dinamiche classiste ed elitarie.  Anche empiricamente, ci possiamo rendere conto che senza coscienza di classe – in grado di minare il potere dalle fondamenta e unire trasversalmente individui contro un nemico comune – la lotta all’ideologia capitalista viene abbandonata in favore di istanze e battaglie frammentate e circoscritte, spesso delle bolle o dei veri e propri trend topic.

Attenzione, tutto ciò non significa unicamente trasporre contenuti politici all’interno della pratica artistica, ma piuttosto di riappropriarsi della creazione come campo di lotta e di azione concreta, essere cioè capaci di produrre immaginari alternativi e scalfire l’egemonia culturale delle classi dominanti. Tuttavia, se, come scrive Hadjinicolaou, ogni ideologia dominante produce un’ideologia delle immagini dominante, allora diventerà ugualmente vitale immaginare spazi alternativi per la produzione artistica capaci di sottrarsi alla logica della proprietà privata, sempre più indirizzata a legittimare un’estetica e un messaggio conforme ad interessi neoliberali.

Insomma, se la cultura rischia di farsi strumento di propaganda e di guerra ideologica – rischio più che mai visibile a partire dallo svelamento del genocidio del popolo palestinese – è solo attraverso la sovversione delle strutture di potere e dell’immaginario che esse impongono che si può sperare in una nuova progettualità culturale, capace di ridefinire radicalmente anche le forme stesse della creazione.

Potremmo dunque dire che la sfida più urgente per chi opera nel settore artistico e culturale - non solo per gli artisti - sia quella di ricostituire una consapevolezza collettiva che restituisca all’arte la capacità di interrogare criticamente i propri modelli produttivi e distributivi, ma soprattutto che le permetta di liberarsi da un gioco al massacro che presuppone logiche classiste, coercitive e censorie. In quest’ottica diviene quanto mai necessario costruire spazi e reti autonome in cui possano proliferare narrazioni antagoniste e che, contestualmente, possano permettere anche a chi è legato alle catene del bisogno di portare avanti la propria pratica artistica.

In tale scenario, si assiste oggi alla riemersione di collettivi autogestiti, pratiche condivise e progetti transdisciplinari che si sviluppano in contesti non convenzionali: spazi in cui la creazione artistica torna ad essere strumento di trasformazione non solo simbolica, ma concreta. Tali esperienze condividono un indirizzo comune: abbattere le gerarchie e redistribuire risorse per sopravvivere in modo sostenibile e autonomo; ed è evidente di come questo sia un passaggio fondamentale da l’indipendenza della produzione alla totale autonomia e autodeterminazione.

Esistono già diversi esempi paradigmatici (si vedano le piattaforme Arts of the Working Class o Working Class Creatives) che hanno fatto della consapevolezza di classe il loro fondamento operativo, riconoscendo come unica possibilità di produzione artistica, una produzione di classe. Nella maggior parte dei casi si tratta di iniziative che denunciano come la produzione artistica sia spesso soggetta alla dominazione di gerarchie economiche e culturali, riflesso diretto delle condizioni materiali precarie in cui versa la stragrande maggioranza dei lavoratori dell’arte.

Forse il superamento della prospettiva borghese della Storia dell’arte e della creazione artistica contemporanea consiste proprio in questo: riconoscere che la sua produzione non solo è politica, ma riflette un’ideologia, e che ogni spazio culturale può essere campo di conflitto. Se la stessa teoria di Hadjinicolaou non riesce a contemplare pienamente la complessità del sistema artistico attuale, allora tanto più è necessario intendere i nuovi spazi auto-organizzati come alternativa concreta al riconoscimento istituzionale, che troppo spesso si configura come strumento del potere.

Per concludere: l’arte, per tornare ad essere forza viva e trasformativa, deve necessariamente tornare ad essere terreno di lotta di classe.


Francesca Disconzi è laureata in didattica dell'arte e in economia politica. Nel 2020 ha co-fondato il centro sperimentale e spazio espositivo Osservatorio Futura occupandosi di critica e curatela, prestando un'attenzione privilegiata ai centri artistici indipendenti e a tematiche politiche come la condizione della working class.