di Paolo Giorgio

 

Una controcultura si definisce sempre in rapporto a un sistema dominante, attraverso forme di opposizione ideologica o estetica. Nella pratica teatrale contemporanea non è semplice identificare questi movimenti sotterranei, capire se esistano e in che direzione si stiano muovendo. Ancora più difficile è valutare la sostenibilità dei modelli alternativi di produzione e diffusione del fatto teatrale, soprattutto in assenza di un finanziamento pubblico strutturato.

Quello che oggi conosciamo come sistema teatrale italiano nasce da un gesto dal sapore leggermente eversivo, che ricorda l’inizio di un’occupazione illegale. Nel 1947 Giorgio Strehler e Paolo Grassi si ritrovarono davanti alla porta sprangata di un edificio abbandonato, nel centro di una Milano che lentamente cercava di rimettersi in moto dopo la devastazione della guerra. Fu Grassi, con un calcio ben assestato, a forzare l’ingresso del vecchio cinema Broletto, i cui camerini erano stati usati come celle di detenzione e mostravano ancora tracce di sangue sulle pareti. Quella sala sarebbe presto diventata il Piccolo Teatro di Milano: il primo Teatro Stabile italiano nacque quindi dalla riappropriazione di uno spazio da restituire alla cittadinanza, sotto il segno potente del sentimento antifascista.

Le idee di Paolo Grassi, figura divenuta archetipo del manager teatrale, sono alla base della concezione del teatro pubblico in Italia. Volendo essere estremamente sintetici, si possono isolare due principi fondamentali. Il primo è quello di un “teatro d’arte per tutti”: l’idea che ogni fascia della cittadinanza, indipendentemente dal contesto socioculturale di provenienza, abbia il diritto di accedere all’agorà e partecipare a un rito collettivo di crescita attraverso la bellezza. Il secondo riguarda la qualità del prodotto artistico, che per essere preservata e costantemente rinnovata non può essere vincolata al botteghino. Da qui la necessità del sostegno pubblico: il teatro, come motore di sviluppo della cittadinanza attiva, deve potersi assumere un rischio culturale, svincolato dalla necessità di fare profitto o di rientrare nei costi.

Molte delle più importanti — e ormai storicizzate — esperienze di controcultura teatrale del secolo scorso sono nate con l’intento di realizzare questi principi, proprio laddove il teatro pubblico tendeva progressivamente a irrigidirsi in modalità di gestione che Peter Brook avrebbe definito “mortali”. Fu in reazione a un’idea di teatro d’arte inteso unicamente come teatro di regia che le cantine romane furono invase, tra gli anni Sessanta e Settanta, da una sperimentazione formale radicale: da quel fermento emersero giganti della scena come Carmelo Bene e Leo de Berardinis. L’urgenza di usare lo spazio teatrale come luogo di incontro per affrontare dal basso la realtà contingente e le trasformazioni politiche è alla base di molte esperienze di occupazione: la più celebre è forse quella della Palazzina Liberty di Milano da parte del Collettivo teatrale “La Comune”, guidato da Dario Fo e Franca Rame, nel 1974.

La consapevolezza che il teatro non fosse davvero per tutti, ma parlasse a una specifica classe sociale — l’alta borghesia — animò, sempre negli anni Settanta, le molteplici esperienze di decentramento teatrale che si diffusero nei quartieri, in particolare quelli segnati da forti disagi sociali. Fra queste spicca la parabola di Giuliano Scabia, che lavorò con gli adolescenti del  Corvetto di Milano creando azioni sceniche che esplodevano improvvise nello spazio pubblico, coinvolgendo i passanti, per poi approdare a Trieste e partecipare attivamente a una delle più importanti rivoluzioni sociali del nostro Paese: il percorso che portò alla legge Basaglia.

La maggior parte di queste esperienze — tanto le più celebri quanto quelle rimaste in ombra — si è sempre mossa al di fuori del sistema dei fondi pubblici, praticando forme di autofinanziamento e ricavando risorse da donazioni o biglietti a prezzo popolare. Il tema della sostenibilità è strettamente connesso alla durata delle esperienze alternative. Se assumiamo che queste pratiche abbiano lo scopo di creare sistemi paralleli a quello ufficiale, capaci di rispondere in modo più puntuale e vitale alle esigenze del pubblico, bisogna riconoscere che, a fronte di molte risposte sul piano artistico e relazionale, non è mai stata trovata una vera soluzione dal punto di vista manageriale. I tentativi di sviluppare strategie di produzione, gestione degli spazi teatrali o circuitazione degli spettacoli al di fuori del circuito dei finanziamenti pubblici hanno avuto, nella maggior parte dei casi, vita breve e non sono riusciti a strutturarsi in un sistema duraturo.

La ragione principale risiede nei costi dell’attività teatrale (basti pensare agli spazi prove, alla creazione di costumi e scenografie, ai trasporti, alla retribuzione degli artisti e delle maestranze tecniche), difficilmente sostenibili con la sola vendita dei biglietti, salvo nei casi di produzioni commerciali destinate a grandi sale. In altri casi, il tentativo di individuare nuove metodologie di gestione e produzione si è scontrato con la rigidità normativa e con una visione politica che ha preferito chiedere l’adeguamento alle regole esistenti, piuttosto che leggere e accogliere le trasformazioni in atto, provando a normarle senza snaturarle.

Questi processi hanno in qualche modo definito un copione che si ripete ogni volta che un’esperienza di controcultura teatrale arriva a conclusione. Da un lato, alcuni artisti fra i molti che le animano fanno una sorta di salto di status e vengono integrati nel sistema più ampio del teatro ufficiale. È andata così, per esempio, per artisti come Carmelo Bene e Berardinis, e molti altri, che dall’autoproduzione sono passati a un ampio sostegno di denaro pubblico. Dall’altro lato, le pratiche teatrali alternative che via via entrano nell’esperienza del pubblico vengono anch’esse integrate all’interno del sistema ufficiale (non è un caso che le forme di teatro di comunità e partecipato, che hanno costituito il nucleo della ricerca teatrale degli anni 2000, si affaccino ora nei bandi e nelle operazioni del teatro pubblico). La lettura di queste tendenze può essere duplice. Da un lato si può dire che le esperienze sotterranee non sono in grado di creare uno spazio realmente alternativo che possa fare con continuità da incubatore a nuovi processi culturali, e finiscono per essere sempre incluse e normalizzate nella struttura dominante. Dall’altro lato invece, questi movimenti semiclandestini, funzionando come laboratori di ricambio generazionale e di sperimentazione di approcci inediti, riescono nel tempo a filtrare nel sistema teatrale innovandolo, anche se con estrema lentezza e senza scardinare ruoli e funzioni acquisite.

Venendo agli anni recenti, ci sono state almeno due grandi sperimentazioni di nuovi modelli di intervento culturale che hanno fatto intravedere enormi potenzialità e sono andate a spegnersi. La prima è stata l’occupazione del Teatro Valle di Roma, storico edificio che ha ospitato i debutti del “Don Giovanni” di Mozart / Da Ponte e dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. L’occupazione, durata dal 2011 al 2014, si è sviluppata attraverso il lavoro volontario di decine di artisti che hanno tenuto il teatro aperto 24 ore su 24, proponendo un modo inedito e partecipato di vivere la sala, con al centro un’importante riflessione sulla cultura come Bene Comune. Assemblee, incontri e spettacoli hanno tenuto vivo lo spazio, ottenendo una risonanza internazionale, al punto che perfino Peter Brook, forse il più importante regista teatrale del Novecento, ha accettato di intervenire al Valle in sostegno del progetto. Sarebbe stata un’occasione per le istituzioni di riflettere e discutere con gli occupanti un nuovo modello di gestione di un importante teatro cittadino, ma l’esperienza si è chiusa come spesso accade: con uno sgombero e i sigilli apposti all’ingresso. Nel 2012, a un anno dall’inizio dell’esperienza del Valle, a Milano un gruppo di lavoratori dell’arte e di studenti occupa la Torre Galfa, un grattacielo di 32 piani abbandonato da più di dieci anni, dando vita a dieci giorni di dibattiti, riflessioni, spettacoli. Resta memorabile l’esibizione di un’intera orchestra composta da studenti di conservatorio, improvvisata all’ingresso dell’edificio, nel bel mezzo di una strada di solito invasa dal traffico. Sgomberata la Torre, il gruppo di occupanti si sposta in una palazzina liberty di Viale Molise, dando vita all’esperienza di Macao. Qui gli occupanti si dividono in diverse fazioni e una buona parte abbandona il progetto. Macao si muove per anni su due fronti: da un lato porta avanti la riflessione nata al Valle, cercando di identificare nuove strategie di produzione e partecipazione; dall’altro realizza una fitta attività di organizzazione di serate, un profluvio di musica elettronica e di alcol a basso costo (e al di fuori di ogni onere fiscale) che ne costituisce la principale fonte di introiti. L’attività di somministrazione produce incassi molto alti, tanto da permettere – quando vengono reinvestiti in progetti culturali – di realizzare eventi con budget importanti (come l’ospitalità di una performance della poetessa Mariangela Gualtieri). Viene anche sperimentata la creazione di una apposita criptovaluta per gestire in modo alternativo un volume d’affari importante. In ogni caso, quando nel 2021, prossimo allo sgombero, Macao decide di chiudere, le serate hanno ormai oscurato la riflessione sulla Cultura come Bene Comune, che non sembra più avere cittadinanza nel dibattito pubblico.

Sebbene centri sociali come il Leoncavallo a Milano e l’Angelo Mai a Roma continuino a proporre cultura, cercando un equilibrio economico fra volontariato, incassi di serate ludiche e fondi reinvestiti in attività culturali, il salto di specie sembra comunque inevitabile anche per gli spazi di rappresentazione, pena unfinale entropico e spesso poco rumoroso. Un caso emblematico è quello della compagnia Teatro Aperto, fondata nel 1995 dal regista Renzo Martinelli e dall’attrice Federica Fracassi, che ha iniziato il proprio percorso proprio al centro sociale Leoncavallo, sperimentando nuove direzioni sceniche camminando in precario equilibrio sul filo dell’autoproduzione. Per crescere e trovare una sostenibilità, il gruppo ha deciso di entrare nel circuito dei finanziamenti pubblici, diventando compagnia di produzione, e dal 2004 al 2022 ha gestito Teatro i, sala convenzionata con il comune di Milano, che negli anni è diventata un punto di riferimento per il teatro di ricerca italiano. Anche con il sostegno pubblico, però, la sostenibilità economica di una piccola sala è un risultato difficile da conseguire, e l’esperienza si è chiusa con un laconico e definitivo comunicato stampa di saluto.

Ancora: nel 2018 un gruppo di giovani artisti indipendenti ha occupato e riqualificato un ampio spazio all’interno dell’ex Fabbrica del Vapore di Milano, complesso destinato da anni ad attività teatrali e culturali, che il Comune non è mai riuscito a far funzionare nel modo in cui avrebbe voluto. Le attività proposte dal collettivo occupante, il Tempio del Futuro Perduto, hanno avuto una forte risonanza in città, incontrando il favore di frequentatori sempre più numerosi. Fra minacce di sgombero e dialoghi con le istituzioni, il collettivo ha finito per regolarizzarsi e partecipare al bando di assegnazione degli spazi che occupava, vincendolo. Di nuovo, la lettura di questo processo è duplice, a seconda della prospettiva da cui la si guarda. Da un lato, si può vedere questa istituzionalizzazione come il risultato di un progressivo riconoscimento dell’esistenza di centri culturali ibridi, che gruppi di giovani gestiscono al di fuori del sistema dei finanziamenti pubblici, restituendo alla città spazi in disuso. Dall’altro, la necessità di conformarsi a norme preesistenti, non pensate appositamente per sostenere queste realtà specifiche, può portare nel tempo a snaturarne la poetica di base, costringendole a potenziare le attività di intrattenimento rispetto a quelle culturali, inseguendo la necessità di sostenere costi in crescita.

In questo panorama, in cui chi cerca di aprire nuovi sentieri viene portato a immettersi nuovamente sulle strade battute, ci si può chiedere se ci siano terreni da coltivare in modo nuovo. Per farsi questa domanda, è prima necessario andare a vedere che ne è stato dei principi fondanti di Paolo Grassi e in che direzione si sta muovendo oggi il sistema teatrale. È noto che i fondi pubblici per il teatro sono distribuiti all’interno di quello che era il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) e che oggi è diventato il FNSV (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo). Da anni tutto il comparto è in attesa di una legge che definisca una volta per tutte le linee generali del ministero e i criteri di assegnazione, che sono stati via via stabiliti anno dopo anno da una circolare, e più di recente di tre anni in tre anni. Il cosiddetto Codice dello Spettacolo è forse in dirittura d’arrivo, ma per quello che è emerso finora non incontra il favore delle categorie di settore.

È noto che i fondi a disposizione per lo Spettacolo dal Vivo sono in diminuzione costante da diverso tempo. La tendenza degli ultimi governi (sia di destra che di sinistra) è stata quella di favorire il più possibile la fusione fra realtà di minore dimensione e fatturato, premiando gli enti più strutturati. Progressivamente i piccoli teatri sono entrati in difficoltà, in un quadro di sempre maggior squilibrio fra le valutazioni di qualità della proposta artistica e le valutazioni quantitative (giornate di spettacolo, numero di produzioni, presenze in sala). L’ultimo bando per i finanziamenti ministeriali (triennio 2025-2027) va ancora di più in questa direzione, aumentando la premialità per le strutture che incassano di più (il che sembra un invito ad aumentare i già costosi biglietti), scoraggiando peraltro le ibridazioni fra diversi formati e linguaggi. Si profila quindi un sistema teatrale che esclude principalmente i giovani artisti, che difficilmente possono accedere a finanziamenti che richiedono bilanci sempre più importanti, e quelle formazioni teatrali che cercano di muoversi al di fuori del sistema e di fatto non trovano modo di distribuire o far vedere i lavori che producono, che spesso si consumano in una manciata di repliche. Le fondazioni bancarie (come Fondazione Cariplo in Lombardia o Fondazione Compagnia di San Paolo in Piemonte) hanno spesso supplito alle carenze dell’erogazione pubblica, finanziando artisti e compagnie al di fuori dei decreti ministeriali; anche questo canale si sta però sempre più indirizzando verso altri obiettivi, in particolare verso la rigenerazione urbana e il sostegno alla creazione di spazi ibridi. Spesso l’unica strada per accedere a qualche possibilità di finanziamento sono bandi generici (che propongono, in caso di vincita, cifre con cui gli artisti non riescono nemmeno a pagarsi le spese vive) o residenze artistiche (che in Italia spesso offrono condizioni economiche che si potrebbero definire misere).

In questo contesto, la controcultura teatrale è soprattutto il lavoro quotidiano di piccoli gruppi che si muovono al di fuori degli spazi ufficiali creando in primo luogo uno spazio d’incontro fra le persone attraverso la pratica teatrale. Un buon esempio di questi movimenti sotterranei è lo sviluppo del Dopolavoro Stadera, un gruppo teatrale nato da un laboratorio aperto e a costo popolare, organizzato ancora una volta in un centro sociale, lo ZAM, situato nella periferia sud di Milano. Fondato da Vlad Scolari e oggi condotto dall’attore Luigi Vittoria, il collettivo mescola attori professionisti e semplici cittadini.Durante l’epidemia di COVID-19 ha inventato un sistema di incursioni teatrali che venivano realizzate nei cortili delle case popolari durante le distribuzioni alimentari di EMERGENCY. I giovani artisti sono andati a cercare un maestro e lo hanno identificato in Mario Gonzalez, storico attore della compagnia di Ariane Mnouchkine, che ha trasferito loro il suo importante lavoro pedagogico sulla maschera e sul clown. Oggi il Dopolavoro Stadera è una comunità teatrale a tutti gli effetti, che tiene laboratori, produce spettacoli e continua a portare avanti il suo lavoro nei quartieri popolari. Attorno a queste attività, si è creata un’economia che è senz’altro piccola, ma funziona. Tutto si basa su donazioni, vendita di merchandising, iscrizioni ai laboratori, piccoli cachet offerti da spazi sperimentali, circoli, ecc. Dentro queste economie di sussistenza, è comunque possibile praticare un teatro che mette al centro del proprio agire l’incontro con la comunità, andando a cercare un nuovo pubblico là dove la scena istituzionale non è mai riuscita a penetrare.

C’è poi un discorso più ampio da affrontare, che ha a che fare con la politica. In un tempo in cui le rivoluzioni dell’Intelligenza Artificiale sembrano prossime a scardinare forse in modo irreversibile i pilastri del lavoro intellettuale e dei mestieri creativi, il teatro sembra mantenere un suo primato, senza dubbio di nicchia, però inscalfibile, fondato sulla caratteristica che più lo definisce: la presenza condivisa dell’artista e dello spettatore nello stesso spazio. Il potere politico sembra disinteressarsi di quel che succede nei teatri nei periodi di crescita e stabilità, mentre comincia a occuparsene con forza nei momenti di crisi. Di recente si è svolto a Vescio, in Svizzera, la riunione annuale di E:UTSA (European Union of Theatre Schools and Academies), un network che riunisce le principali Università di Teatro europee. Dal confronto è emerso come anche i governi delle nazioni tradizionalmente più solide economicamente e attente al comparto culturale (su tutte Francia e Germania) abbiano negli ultimi anni decurtato i fondi a queste strutture. È emerso anche che sono in atto azioni sempre più precise tesi a togliere autonomia didattica alle università, depotenziando il ruolo dei Senati Accademici e la rappresentanza degli studenti.

In quel laboratorio di Democrazia Autoritaria che è l’Ungheria di Orban, nel luglio 2020 il parlamento ha approvato una legge che trasferiva la gestione dell’Università di Teatro e Cinema (SZFE), fondata nel 1865, a una fondazione privata controllata dal governo. Questo ha portato alle dimissioni in blocco del rettore e del Senato Accademico, in segno di protesta. In seguito, si sono dimessi anche la maggior parte dei docenti, che hanno fondato una nuova scuola/centro culturale insieme agli studenti, chiamata Freeszfe. La scuola ha organizzato un “emergency exit project”, un programma formativo d’emergenza riconosciuto da università partner in Europa per consentire a studenti e insegnanti di continuare a studiare o insegnare con crediti riconosciuti all’estero, cosa altrimenti impossibile in Ungheria. L’obiettivo è la creazione di un centro artistico autonomo a Budapest, capace di ospitare insegnamento, spettacoli, laboratori e ricerche. Attualmente molti membri lavorano su base volontaria, poiché studenti e insegnanti hanno perso borse di studio, copertura sanitaria e prestiti studenteschi. Freeszfe è un autentico laboratorio di controcultura teatrale, fortemente radicato nel proprio paese, ma ricco di connessioni con altre realtà europee. La minaccia più importante per la sua sopravvivenza è, come sempre, la sostenibilità delle sue attività, che a questo punto può basarsi quasi esclusivamente sulle iscrizioni degli allievi ai laboratori proposti.

Senza dubbio il caso ungherese è estremo e drammatico, ma una cosa che ci stanno insegnando questi anni è che la situazione politica cambia velocemente, e non ci vuole molto tempo per trovarsi a fronteggiare problematiche fino a qualche anno fa impensabili. Il teatro resta un motore fondamentale di cittadinanza attiva, e forse anche per questo il sistema ufficiale si muove sempre più in direzione di una istituzionalizzazione anestetica.

Le enormi proteste popolari che dalla fine del 2024 infiammano le strade di Belgrado, per combattere la corruzione ovunque diffusa nel paese, e di cui non si è quasi mai parlato su nessun giornale italiano, sono cominciate proprio dal teatro, con il blocco della Facoltà di Arte Drammatica del 22 novembre.

Nessuna previsione è in alcun modo attendibile, ma non è impossibile, anche osservando diversi segnali nel modo di operare dei giovani artisti, che certe istanze arrivino a essere sentite più profondamente anche in Italia, e che il teatro possa tornare a essere un incubatore sperimentale di strategie di incontro, soprattutto al di fuori di un circuito ufficiale sempre più respingente. Senza dubbio, al di là delle istanze politiche ed estetiche, questo potrà avvenire solo portando avanti una riflessione su un’economia teatrale alternativa al finanziamento pubblico che possa davvero funzionare – e magari fornire nuovi modelli per scardinare un sistema che ha dimostrato in più occasioni di non funzionare adeguatamente.


Paolo Giorgio è regista teatrale, drammaturgo e formatore teatrale. I suoi spettacoli sono stati prodotti o ospitati da alcuni dei maggiori Festival (Biennale di Venezia, Mittelfest, Astiteatro, Pergine Festival, Invisible Cities Festival) e Teatri Italiani (Teatro Out Off, Teatro Filodrammatici, Teatro Franco Parenti, Tieffe Teatro, MTM Manifatture Teatrali, Teatro i, Zona k, Teatro Magro, Cubo Teatro e altri). A partire 2007 è docente di recitazione, regia e teatro partecipato presso la Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi. Ha tenuto diversi workshop presso realtà nazionali e internazionali. Dal 2010 è il coordinatore dei progetti internazionali della Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi. Ha pubblicato per i tipi di Postmedia Books “Fuoriscena – Teatro indipendente a Milano”. Nel 2025 è stato eletto nel board del network E:UTSA (European Union of Theatre Schools and Academies).