Guardare non è solo un atto percettivo ma si intreccia con il vissuto, la storia e la memoria dando luogo a una esperienza complessa dove non esistono regole e dove vedere significa essere costantemente sorpresi da qualcosa. *
Viviamo in un mondo in cui tutto è fotografato, ridotto a figura, diminuito di una dimensione e di molto senso. E così, quando un’immagine ci ricorda che fotografare è anche testimonianza, racconto e, perché no, dolore, ci si sorprende o, peggio, ci si indigna.
Come ogni eccesso, il troppo guardare non ci insegna a leggere mentre le informazioni che le fotografie portano con sé non ci raggiungono più. La consuetudine all’atrocità rende l’orrore normale e distante e come ogni consuetudine annulla il significato, secca i cuori. Abbiamo visto troppi Vietnam, troppa violenza, troppe guerre per riuscire ancora a immaginarne una. Dopo aver visto molte fotografie tragiche e tristi ci si sconvolge meno, disse Susan Sontag. Le immagini stanno consumando lo spazio pubblico di pensiero. Dovremmo tutti metterci a dieta, limitarne il consumo. La gente non ricorda tramite le fotografie ma ricorda solo le fotografie.
Guardiamo senza aver voglia di capire, con il corpo affogato in un mare gelatinoso di dati e la testa rigorosamente in superficie a fingere di respirare mentre per difesa o emulazione parliamo spesso senza più cognizione. Leggiamo piegando il senso, interpretando forzosamente, senza diritto per una replica perché una replica, in fondo, non ci interessa. Ogni tema ridotto a titolo, riassunto, sfiorato.
È allo stesso modo che abbiamo visto troppi lupi per capire Wall Street, per prevedere una Cina. Abbiamo a disposizione listini e commenti, la Borsa in casa, servizi televisivi e fotografie della situazione: investire non è mai stato così facile e spensierato. Ma ancora ci sorprendiamo della speculazione, ancora non sappiamo starne alla larga. Ancora balliamo il ballo della sedia e giochiamo il gioco del cerino.
Ogni fotografia è la somma di tutto ciò che è successo, un’immagine che, quando è letta con attenzione, tutto questo ce lo racconta e che, invece, abbiamo disimparato a guardare per troppa esposizione. L’economia non è una scienza esatta, men che meno la sua parte aggressiva e arrogante che chiamiamo finanza. Non è esatta da noi in occidente né può esserlo dall’altra parte del mondo. Ma questo dovremmo saperlo, dovremmo conoscere la precisione di questa inesattezza. Dovremmo ancora saper leggere.
Investire in Cina credendo che un’economia cresca all’infinito, che a un boom non corrisponda un bang, che tutto questo non sia comandato, forzato e finto, è ingenuo o scriteriato. Affidare i propri soldi a società di cui non conosciamo la propensione al profitto, il cui valore di Borsa è frutto di operazioni esterne all’azienda più che alle capacità interne, di cui a volte non sappiamo neanche il nome, non ha più senso dell’affidarli a un cognato che, statisticamente, prima o poi potrebbe giocarseli al casinò. Lo abbiamo fatto ai tempi della new economy, lo abbiamo fatto con gli immobili a Dubai ma le mode negli affari dovremmo lasciarle ai sarti.
La bolla cinese è come una macchia su una fotografia che abbiamo guardato senza vedere.
*John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
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