Io odio i ciclisti, sudati e invadenti. Falsi ecologisti mentre danno aria allo stomaco, gettano carte e sputano sputi e veleno. Non li reggo mentre parlano in mezzo alla strada, quando occupano troppo spazio, rallentano in salita e rallentano in discesa, quando sono veloci e imprudenti, e ti affidano la loro vita e la tua se ne va d’infarto.
Odio i motociclisti, rumorosi e zigzaganti, gli scooter che passano a destra e la tachicardia da harley. Il rumore e non vedere in faccia, le partenze al semaforo come se il gran premio partisse da via Torino. E chi impenna, chi va contromano, chi deve passare ad ogni costo e chi si scusa dopo aver portato via uno specchietto. Senza fermarsi mai.
E gli automobilisti. Tromboni con i loro clacson, arroganti con la loro arroganza. Abbaglianti e mai splendidi, ingombranti sempre di più. Mi da fastidio il parcheggio proporzionalmente al numero ordinale di fila, chi non capisce che le file non si dissolvono suonando, le discoteche ambulanti, gli adesivi ‘bebè a bordo’, le carrozzerie sporche.
Pure i pedoni, spesso.
L’odio non è il sale delle nostre strade ma è il riflesso della nostra società, l’applicazione schizofrenica di una sempre maggiore incapacità di comunicare, dell’alba incongruente che ogni giorno sorge su un mare di rapporti. Dei giochi di ruolo, delle posizioni da difendere, del’io sono io.
Parlare meno, essere più efficienti, ridurre gli sprechi. Essere costantemente in gara.
Ma siamo davvero convinti di dover accelerare e ridurre i consumi, di voler ridurre al minimo i contatti con gli altri in nome dell’utilità? Che il nostro mestiere, qualsiasi mestiere sia, sia solo professione e non umanità, che si debba limitare alla tecnica, noi al di qua e gli altri al di là, che l’efficienza stia nel ridurre i tempi morti quando invece si tratta di vive parole tra persone?
Ogni altro è diverso da noi e la diversità ci spaventa e ci allontana. E più ci allontaniamo meno capiamo e più siamo diversi. Mentre il vero vantaggio sta nel dialogo comune, nel cercare di capirsi, comunicare bene e ascoltare. E questo è paradossale in un’epoca basata sulla comunicazione. Come paradossali sono le installazioni visionarie e drammatiche di Josè Munoz in cui si percepisce fisicamente il distacco, la diversità, la teoria del doppio legame di Bateson.
Dove chi non ascolta si sente inascoltato e deriso. Dove chi passa si sente in imbarazzo tra statue che ci stanno prendendo in giro, o così pare.
Dove dovremmo, finalmente, capire come sta chi sta dall’altra parte di noi. Comunicare per mettere in comune.
E smettere di ‘odiare’. A partire dalle nostre strade. Proseguendo nel nostro mestiere.
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