Roland Barthes è stato un uomo bizzarro e fuori dagli schemi oltre che scrittore e semiologo raffinato. Visse interamente nello scorso secolo e morì, come ogni persona di buon senso dovrebbe voler morire, investito da un furgone di una lavanderia: un lavaggio all’anima, un passaggio verso un altrove e amen. Scrisse tanto, Barthes, e di ogni cosa che fosse musica, fotografia, wrestling o Proust. Di letteratura, soprattutto.
Il suo capolavoro, S/Z, è l‘analisi puntuale di un racconto di Balzac, Sarrasine, fatta con uno scopo preciso ed essenziale: definire come la narrazione sia il frutto di un contratto dove qualcuno dà e qualcuno prende, dando qualcos’altro in cambio. Un contratto ineluttabile, onnipresente, vitale.
Sarrasine è la storia di uno scultore follemente innamorato di Zambinella, una cantante d’opera. Prima di morire Sarrasine ne traduce la bellezza in un’opera presa poi a modello da un pittore per immortalare Adone. Anni dopo la bella Madame de Rochefide vede il quadro e chiede ad un uomo di raccontarle la storia che il quadro nasconde. La sera successiva i due si incontrano e lui, ai piedi della poltrona dove lei è seduta, comincia a raccontare, svelandole la natura maschile di quella cantante.
Il contratto, per vederla come Barthes, è evidente: Madame de Rochefide vuole conoscere il segreto, il narratore vuole Madame e nessuno dei due, alla fine, sarà soddisfatto.
Ma quanto vale un racconto? Quando è equo uno scambio? Quando vale la pena di ogni contratto? Non si sa mai prima, non si sa se lo sforzo sarà ripagato, riconosciuto, premiato. Se il corrispettivo sarà equo o se qualcuno avrà più dell’altro.
Ma non dovrebbe essere questo lo scopo. Quello che ci dice Barthes è che dietro a ogni cosa umana esiste sempre un racconto, una storia, una narrazione che dovremmo ricercare, scoprire e scambiare. Dietro ogni attività si fondono letteratura e economia e il successo è solo nella ricerca, nell’impegno, nella voglia di approfondire, nell’attenzione. Nella curiosità e nello scambio, non in altro.
Perché senza curiosità e scambio le fondamenta crollano, le navi affondano, i popoli vanno in guerra e le cose finiscono. Perché, come scrisse Calvino al termine de Le città invisibili, ‘l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio’.
(L’immagine, ‘Open City’, è di Teju Cole)
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Io penso due cose. La prima cosa che penso leggendoti è che quei due modi di Calvino siano in realtà lo stesso modo visto da due punti diversi. La seconda è che hai scritto una cosa molto bella e molto poco vera, che mi fa venir voglia di augurarmi di smettere di vedere l’insieme, così magari un po’ di entusiasmo per questa cloaca viene (torna?) anche a me. Comunque bel post.
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